Omelie Vescovo

Omelia del Vescovo per la Messa del Crisma 2025

Giovedì della Settimana Santa – Omelia per la Messa del Crisma
Cattedrale di Cagliari, 17 aprile 2025

Carissimi in Cristo,

come quel giorno nella Sinagoga di Nazaret, anche i nostri occhi sono fissi su Gesù. È qui, e continua a proclamare che in Lui, oggi e per sempre, si compie la Scrittura. È Gesù Cristo il lieto annuncio che siamo chiamati a portare ai poveri, la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi e la libertà agli oppressi. Gesù è l’anno di grazia nel quale tutte le promesse di Dio si compiono e così ogni autentica speranza dell’uomo (cf. Lc 4,16-21). È il Signore Gesù il nostro Sacerdote Sommo e il Pastore buono. Noi, la nostra vita e il nostro ministero, sono parte della consacrazione e missione di Cristo che in noi e attraverso noi continua a realizzare incessantemente la volontà di salvezza del Padre nel mondo (cf. PO 14). Per questa volontà di amore e verità si è fatto uomo, è morto ed è risorto.

Come ieri abbiamo letto da Sant’Agostino, nella Liturgia delle Letture, Gesù, dando la vita per noi «ci ha dato non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati». Gli stessi martiri, che hanno seguito le orme del Signore, «hanno ricambiato solo quanto hanno ricevuto dalla mensa del Signore» (Trattati su Giovanni 84,2). Diventiamo capaci di seguire l’esempio del Signore, nel dare la vita per lui e gli uomini, non tanto per la forza della sola nostra volontà quanto per l’intensità della gratitudine (che motiva e sostiene la volontà), per il desiderio di ricambiare il dono ricevuto e continuamente offerto. Non per presunzione ma per gratitudine.

Oggi siamo chiamati alla rinnovazione delle promesse sacerdotali. Pensiamo alla seconda domanda, la più radicale: «Volete unirvi e conformarvi intimamente al Signore Gesù, rinunziando a voi stessi e rinnovando i sacri impegni che, spinti dall’amore di Cristo, avete assunto con gioia verso la sua Chiesa nel giorno della vostra ordinazione sacerdotale?».

Gli impegni presi liberamente e con gioia nel momento della nostra ordinazione devono ora essere confermati (ossia resi fermi, saldi) dalla volontà (volete?) il cui vero motivo è restare uniti al Signore Gesù in modo intimo, rinunciando a noi stessi e rinnovando (rendendo nuovo), nella fedeltà, quell’amore che ci ha spinto ad assumere con gioia questa vita e questo ministero. Senza amore, come potremmo rinunciare a noi stessi? Senza voler restare uniti al Signore Gesù in modo intimo, non superficiale o esteriore, come potremmo esser conformi al modello che Egli è?

Il Signore Gesù ha detto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12), e nello stesso contesto ha anche annunciato: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,4-5). La vera imitazione del Signore (amare come Egli ci ha amati) è possibile solo restando in Lui, come un tralcio alla vite.

La maggior parte di noi ha esperienza sufficiente per poter ripetere che, davvero, senza di Lui non possiamo far nulla, e che nonostante l’esattezza del pensiero e la correttezza della prassi, non produciamo frutto, rimaniamo sterili senza il suo amore. E a poco a poco anche la purezza dell’intenzione si corrompe e la forza della volontà si indebolisce, lasciando spazio alla rivendicazione delusa, al rammarico, alla pigrizia dell’accidia o alla tristezza, fino al rancore.

La Chiesa non ci chiede se siamo o siamo stati o saremo capaci di imitare il Signore nel dono della vita, ma se vogliamo custodire e rinnovare l’amore che ci unisce a Lui come tralci alla vite. È il dono dell’unità con il Signore e tra noi che motiva e legittima la nostra fedeltà fino all’ultimo respiro e ci fa desiderare di vivere per farne conoscere a tutto il mondo la bellezza.

Rimaniamo in Gesù, come tralci uniti intimamente alla vite. La fecondità e la gioia del ministero si realizzano per la sovrabbondanza di una grazia, gratuitamente data e accolta con libertà, consapevolezza e gratitudine, che si trasmette, quasi osmoticamente, agli altri.

Mi pare di poter dire che questa è stata la nota dominante della passione di padre Rafal Jaworski, religioso redentorista, già parroco di San Sperate martire, morto a Roma lo scorso 10 marzo, a seguito di una lunga e penosa malattia. Le sue espressioni più ricorrenti, sempre ripetute, erano di commossa (ben percepibile) gratitudine. Dopo la quarta operazione, ad esempio, nel settembre 2023, diceva: «Veramente, di tutto cuore, grazie, grazie di cuore, e quanto prima sarò pronto a dire: Veramente, Signore, grandi cose mi hai fatto, l’Onnipotente. Grazie di cuore». I suoi discorsi, durante questi anni, erano sempre pieni di una sorprendente e grata (quasi fanciullesca) letizia. «Quanto prima sarò pronto». Unito nella malattia al Buon Pastore, è stato “reso pronto” a dire al Signore il suo grazie e ha generato un flusso di preghiera e misericordia. Sta qui il segreto della fecondità sacerdotale, unicamente frutto dell’amore del Signore morto e risorto accolto con libertà, consapevolezza e gratitudine, per usare (di nuovo) le parole del Concilio, che indica nella gloria di Dio lo scopo del sacerdozio (cf. PO 2).

Pochi mesi prima, era morto a Cagliari don Roberto Lai, presbitero della diocesi di Ales-Terralba, 46 anni. Il 2 gennaio aveva scritto un “testamento spirituale” che comincia così: «L’esistenza di un sacerdote dovrebbe essere sempre una perenne celebrazione della Messa. / Da una parte l’espressione della gratitudine a Dio e dall’altra l’entrare nel vivo del mistero pasquale consumato sul Golgota: per me è stato proprio così. / Sono profondamente grato al Signore per la vita, per il dono della fede e della vocazione». Tutto lo scritto è un grande grazie alla famiglia, alla Chiesa, alle numerose Veroniche incontrate e ai tanti cirenei che lo hanno aiutato a portare il peso della croce fino a guardare con fiducia l’ultimo passaggio: «Come e quando giungerò alla cima del Cranio, chiamato Golgota, solo Dio lo sa. Anche se con un certo timore dico: “Sia fatta la tua volontà”, sono certo che dopo il dolore e il silenzio arriverà il grande Alleluia della vittoria finale». Gratitudine, speranza e fiducia fino alla fine: «È bello essere sacerdoti, è bello servire la Chiesa: ne vale davvero la pena». Era pronto ed è morto 13 giorni dopo.

È bello! Se non domina il sentimento di questa bellezza, l’animo si riempie di cose piccole, troppo umane per sostenere il cammino.

Conquistati dalla bellezza della Chiesa e della nostra vocazione, chiediamo, cari fratelli, in questo Anno Santo, la grazia di conformarci al modello sacerdotale che è Cristo Gesù, rinunciando a noi stessi, immensamente grati del suo amore, intimamente e lietamente a Lui uniti.

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