Domenica delle Palme – Passione del Signore
Cattedrale di Cagliari, 13 aprile 2025
Abbiamo di nuovo ascoltato il Signore proclamare, nel segno di voci umane, il racconto della sua passione e morte (cf. Lc 22,14 – 23,56).
Il corpo di Gesù, tra l’arresto nel Getsemani e la morte sul Golgota, è stato umiliato e maltrattato, esposto alla derisione e all’insulto. Il lenzuolo della Sindone testimonia in modo impressionante questa vicenda, la pia pratica della via Crucis ce ne fa ripercorrere lo strazio, innumerevoli opere d’arte ne presentano agli occhi l’immagine.
Si realizzano nel corpo di Gesù le antiche profezie:
«Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6).
Si compie il mistero del Figlio che «non ritenne un privilegio / l’essere come Dio, / ma svuotò se stesso / assumendo una condizione di servo, / diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Tale “svuotamento” prosegue fino alla mortificazione ultima: «Dall’aspetto riconosciuto come uomo, / umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte / e a una morte di croce» (Fil 2,7-8).
Professiamo che «è in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9), ma non dobbiamo mai dimenticare che è un corpo, per sempre e al tempo stesso, umiliato e glorioso, come reso manifesto nelle apparizioni ai discepoli; è un corpo in cui si incontrano la malvagità degli uomini e l’esaltazione di Dio. Un corpo esaltato da Dio perché ha liberamente accettato di essere umiliato.
Che poteva fare di più per noi? E perché venne trattato senza riguardo e pietà? Perché continua drammaticamente ad essere deriso e picchiato nel suo “corpo” che è la Chiesa? Da noi, sia chiaro, da tutti noi, è colpito e offeso. Non facciamo fatica a immedesimarci con «tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, [e che] ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto». Non possiamo non pensare all’enorme peso delle nostre colpe e delle ingiustizie della nostra storia di cui siamo in qualche modo complici. Quel corpo appeso alla croce chiede almeno questo sincero dolore, il riconoscimento della nostra dimenticanza e distrazione, del nostro disamore, del nostro peccato.
Il racconto della Passione secondo Luca (cf. Lc 22,14 – 23,56) si conclude menzionando alcuni personaggi nuovi, considerati “minori”, ma che sembrano già preparare l’irrompere di una novità, una rottura rispetto alla storia di menzogne e violenza, di fallimento, che abbiamo ascoltato.
Mentre calano le tenebre – è l’ora del potere delle tenebre -, e con esse ogni speranza di molti discepoli, il corpo di Gesù non è abbandonato da tutti. Gesù, che è stato ucciso senza pietà, è adesso guardato, trattato, sepolto da persone pietose.
Un centurione sotto la croce, «visto ciò che era accaduto», lo riconosce giusto.
La folla, salita sul Golgota per «vedere questo spettacolo», torna a casa battendosi il petto. Giuseppe d’Arimatea, membro del Sinedrio, ma che non era stato complice della decisione omicida, va a chiedere il corpo del condannato, con la forza e il coraggio che era mancata agli apostoli. Si espone, rischia, domanda e prende il corpo di Gesù per dargli una sepoltura dignitosa. È la forza e il rischio della carità!
Alcune donne «osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù», e vanno a disporre quanto è necessario per rendergli l’ultimo omaggio.
Si prepara, nella pietà di questi testimoni, che si alimenta di uno sguardo buono, già l’annuncio dell’amore più forte della morte. Le tenebre non hanno vinto totalmente l’amore. I discepoli sono fuggiti, ma grazie a queste persone umili e perlopiù sconosciute, sulla terra rimane accesa una luce di pietà per Gesù. Non ci sono solo fuga e paura, insieme a sentimenti di fallimento e sconfitta. Queste persone buone tengono desto un affetto e un’attesa, ben rappresentata da quelle donne che preparano aromi e oli profumati per tornare da Gesù e onorare il suo corpo. La loro amorosa attesa è come un ponte gettato oltre che ci fa già intravvedere le prime luci del giorno dopo il sabato.
Cari fratelli e amici, anche noi, oggi guardiamo da lontano, anche noi seguiamo il cammino della croce con pietà, dolore e attesa. Il corpo di Cristo continua a essere umiliato nei corpi dei torturati, dei credenti perseguitati, dei malati, delle vittime di abusi, delle ingiustizie e della guerra. Non vengano meno la pietà, di cui il dolore è una faccia (se abbiamo dolore vuol dire che il cinismo non ci ha vinti), e l’attesa della speranza, come dirà l’orazione dopo la comunione, rivolgendosi al Padre: «Con la morte del tuo Figlio ci fai sperare nei beni in cui crediamo, fa’ che per la sua risurrezione possiamo giungere alla meta della nostra speranza».
Fratelli e sorelle, il peccato continua a offendere il corpo di Cristo. Servono uomini di pietà, ministri di speranza.