Omelia per la Solennità di Sant’Efisio
Cagliari, Chiesa di Sant’Efisio, 15 gennaio 2025
2Mac 7, 1.20-23; 27b-29
2Tim 2, 8-13; 3, 10-12
Gv 12, 24-26
La solennità di Sant’Efisio riveste quest’anno un valore peculiare a motivo dell’Anno Santo che si è appena aperto a Roma e in tutte le Chiese particolari. Nell’intera storia dei giubilei costituisce un punto unico di luce la Commemorazione dei testimoni della fede voluta da san Giovanni Paolo II, nello scenario drammaticamente evocativo del Colosseo, insieme ai rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, del 7 maggio 2000. In quella circostanza il Papa diceva: «Il martyrologium dei primi secoli costituì la base del culto dei santi. Proclamando e venerando la santità dei suoi figli e figlie, la Chiesa rendeva sommo onore a Dio stesso; nei martiri venerava il Cristo, che era all’origine del loro martirio e della loro santità». Il martirio ha origine e compimento in Cristo, termine vero della nostra venerazione, al quale rendiamo omaggio riconoscendone la presenza e l’onnipotenza nella vita di fede, speranza e carità di tanti uomini e donne, di tutte le lingue e razze, che lo hanno seguito nelle varie forme della vocazione cristiana, fino al dono della vita. Ieri come oggi, e forse oggi più di ieri. Nel sangue versato da questi fratelli – prega il Prefazio -, il Padre manifesta i suoi prodigi, rivelando la sua potenza nei deboli e donando agli inermi la forza del martirio. Dio manifesta se stesso nei santi, nel sacrificio dei deboli e degli inermi, ai quali Egli dona potenza e forza. Potenza e forza, sia chiaro, non del temperamento, ma dell’amore. L’esempio di Sant’Efisio e degli altri martiri rivela Dio, il suo amore che trasfigura la vita, che dà forza ai deboli e potenza agli inermi. La testimonianza dei santi è perciò un potente punto di contatto con l’Incarnazione del Figlio di Dio, con la sua Croce e Risurrezione.
La fonte permanente di tutta la vita cristiana è sempre l’incontro con Gesù Cristo, che dà certezza di senso e larghezza di scopo. Il martire cristiano non muore per un’idea, ma – come ricordava il teologo Hans Urs von Balthasar – viene crocifisso «con Cristo» e muore «con qualcuno che è già morto per lui». Il martirio pertanto è un atto di gratitudine per questo amore e un impegno di fedeltà alla propria fede. Il martire cristiano muore per amore di Colui che ci ama e per cui val la pena vivere. La sua morte ci insegna a vivere.
Per un dovere di gratitudine e un proposito di imitazione, celebreremo con particolare devozione, lungo quest’anno giubilare, la ricchezza della testimonianza dei martiri che sono anche semi di unità nella Chiesa e tra i cristiani. Non si possono venerare i martiri e coltivare le divisioni.
La lettura del Secondo libro dei Maccabei parla della forza di una mamma in vista della speranza: «Soprattutto la madre era ammirevole e degna di gloriosa memoria, perché, vedendo morire sette figli in un solo giorno, sopportava tutto serenamente per le speranze poste nel Signore» (2Mc 7,20). La speranza è sorgente di vigore e coraggio, quello dell’amore, motivo per donare tutto in vista di un bene maggiore, quello che compie ogni desiderio. La speranza si comunica, si accende da persona a persona. Di uno dei figli è scritto: «Ridotto in fin di vita, egli diceva: “È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati”» (2Mac 7,14). La speranza in Dio rende liberi davanti alla prepotenza degli uomini perché si fonda sull’attesa di un bene più potente del più potente degli uomini e su una promessa più grande della più grande minaccia del più potente degli uomini. «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). Sperare nella promessa di Gesù assicura libertà e fecondità (non si rimane soli). La speranza si nutre dell’amore alla “vita eterna”, la vita vera, e quindi ha bisogno di lungimiranza, della magnanimità di chi vede lungo e pensa in grande. Il miope, che vede solo il suo piccolo mondo e vive unicamente nell’istante, non ha speranza. Per cambiare il mondo, anche in termini sociali e politici, serve una visione alta, una speranza lungimirante.
Anche Sant’Efisio, al momento del martirio – secondo il racconto della Passio – ricorda la promessa del Signore Gesù: «la beatitudine del corpo e dell’anima». È questa certa speranza, fondata sulla promessa del Signore, che porta a fidarsi della misericordia del Signore e ad accettare il martirio: «Esaudisci la mia preghiera e accogli le mie lacrime con la benigna tua pietà e siimi propizio. Concedi, dunque, o Signore, che io conduca a termine felicemente il cammino del mio martirio che per te accetto volentieri. Mi assista la tua misericordia e l’anima mia non trovi alcun ostacolo». La speranza cristiana diviene preghiera e si poggia sulla fiducia nella misericordia di Dio. Il cammino del martirio può essere concluso felicemente ed è questa la vera manifestazione di Dio, l’unico che può coniugare la felicità al sacrificio.
La nostra testimonianza nel mondo è così poco incisiva non perché siamo deboli, ma perché non abbiamo speranza, perché non desideriamo e non attendiamo come bene ultimo l’abbraccio del Signore e in fondo non ci fidiamo della sua promessa. Dobbiamo molto pregare il nostro martire protettore perché anche noi possiamo avere questa libertà di radicalità e fiducia di speranza.
Davvero la testimonianza più convincente della speranza cristiana ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita, e non per disprezzo ma per amore, pur di essere fedeli, per non tradire il loro Signore.
Il Papa afferma nella Bolla di indizione del Giubileo: «Abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza» (cf. Spes non confundit, n. 20). Custodiamo la testimonianza di Sant’Efisio e affidiamoci alla sua intercessione perché siamo certi, forti, ministri e pellegrini di speranza.