Omelia per la Festa di Santo Stefano, primo martire
Quartu Sant’Elena, Parrocchia di Santo Stefano protomartire, 26 dicembre ’24
Fratelli e sorelle, in questi giorni la Chiesa ha vissuto due momenti significativi a Roma: stamattina l’apertura della Porta Santa nel Carcere di Rebibbia e prima, poco più di ventiquattro ore fa, nella Basilica di San Pietro.
Piace pensare che questa porta che si apre sia davvero un segno per tutti noi. Quando ci troviamo davanti a una porta aperta, siamo sulla soglia, che non è un luogo dove fermarsi, ma da attraversare. Come quando scatta il verde a un semaforo: occorre ripartire, altrimenti, dopo mezzo secondo, già qualcuno suona il clacson, perché sa che bisogna muoversi!
Questa porta aperta è un duplice invito. Da una parte ci invita a uscire, a liberarci da tutto ciò che ci opprime e ci tiene chiusi. Usciamo per essere liberi. Dall’altra ci chiama a entrare nella casa della misericordia di Dio, dove possiamo ritrovare i nostri fratelli e sederci alla mensa con il Signore.
A Cagliari non apriremo una Porta Santa, ma attraverseremo realmente e simbolicamente la Porta della Cattedrale. Questo passaggio richiede due cose: la grazia di Dio che apre la porta e il nostro desiderio di attraversarla. Sant’Ignazio ci ha insegnato che nella preghiera dobbiamo chiedere al Signore che compia ciò che veramente desideriamo. E cosa desiderare in questo tempo se non un rinnovamento profondo nel perdono, nella misericordia ricevuta e donata. Attraversare la porta, appunto.
C’è un’immagine bellissima, un po’ diversa, nell’Apocalisse, che dovrebbe farci riflettere. Il Signore dice: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Non forza la porta, non la sfonda, aspetta che siamo noi ad aprire. Vuole entrare nella nostra vita, nei nostri affetti, nel nostro lavoro, ma rispetta la nostra libertà e la drammatica possibilità del rifiuto.
Qui possiamo considerare l’esempio di Santo Stefano, che oggi festeggiamo. Ci insegna due cose fondamentali. Prima di tutto, ci mostra come avere un rapporto vivo e personale con Gesù. Il cristianesimo non è principalmente una serie di regole o di attività o di dottrine: è l’incontro con una Persona viva. Oggi parliamo tanto della Chiesa, del Papa, dei vescovi e dei preti, ma gli storici ci raccontano che un tempo anche i portuali parlavano e dibattevano di Gesù Cristo, della Madonna, dello Spirito Santo.
Santo Stefano non è morto per delle opinioni sulla gerarchia ecclesiastica – è morto perché ha visto il Signore e ne ha parlato con passione. “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,56), ha detto morendo. Questo è il cuore della nostra fede: uno sguardo che sa riconoscere il cielo aperto sopra di noi e che contempla il Figlio dell’uomo presente nella nostra vita.
La seconda realtà che ci insegna Santo Stefano è il valore della testimonianza. Gesù ci ha avvertito: “Vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani” (Mt 10,17-18). Non dobbiamo sorprenderci se la nostra fede incontra opposizione, succede ancora oggi, e le statistiche ci dicono che i cristiani sono il gruppo più perseguitato al mondo. Non perché cerchiamo lo scontro, ma perché la fedeltà a Cristo a volte ci mette “dall’altra parte” rispetto alla mentalità dominante.
I primi cristiani hanno scelto di chiamare i discepoli uccisi per la fede “martiri”, cioè testimoni, e non eroi. Qual è la differenza? L’eroe è vantato per il suo coraggio e cerca la gloria personale, il martire invece indica un Altro, mostra l’Amore che, come dice Dante, “move il sole e l’altre stelle” (Divina Commedia c. 33,145).
Fratelli e sorelle, in questo tempo di nuova evangelizzazione, non cerchiamo il quieto vivere. Testimoniamo con dolcezza ma con chiarezza la nostra fede, nei luoghi di lavoro, accanto ai malati, nelle nostre famiglie. Come diceva Giovanni Paolo II, per “rifare il tessuto cristiano della società umana” urge “che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali” (Christifideles Laici, 34). È frase forte, certamente, che ci dice che dobbiamo reimparare l’essere cristiani anche dentro le nostre chiese e comunità.
Concludo con un pensiero sulla speranza. Il martire può pregare per i suoi persecutori perché sa che c’è sempre un “altro tempo”, un futuro che appartiene solo a Dio. Noi vorremmo sempre stabilire subito chi ha vinto e chi ha perso, ma i tempi supplementari – permettetemi questa metafora calcistica – sono nelle mani di Dio.
Che questa consapevolezza ci renda semplici: semplici nell’amare Gesù Cristo e semplici nel testimoniarlo al mondo. Perché questo mondo, anche quando sembra respingerlo, in realtà ha una sete profonda di Lui, desidera conoscerlo e riconoscerlo.