Omelia nella Solennità del Natale del Signore – Messa nella Notte
Cattedrale di Cagliari, 24 dicembre 2024
Carissimi amici e fratelli,
non sappiamo chi fossero e cosa pensavano, vegliando a guardia del gregge, quei pastori. Erano certamente poveri, molto poveri, gli ultimi nella scala sociale e morale del tempo. Quella notte, iniziata come tutte le altre, buia e silenziosa, diventa differente a causa di qualcosa che irrompe dal cielo, fino a quel momento chiuso: una luce li avvolge, l’angelo del Signore dice parole di rassicurazione e di gioia, l’esercito celeste loda Dio e dichiara la pace per gli uomini che egli ama (cf. Lc 2,8-14). Sono poveri e aperti, pronti a credere all’annuncio dell’angelo e docili nell’obbedire all’invito di andare nella città di Davide a vedere un bambino adagiato in una mangiatoia. Non discutono, non obiettano che “un Salvatore” non nasce “adagiato in una mangiatoria”, ma credono nella grande gioia, vi sperano, e senza indugio corrono a vedere il segno (cf. Lc 2,16). Sono poveri e semplici. Dopo aver trovato il bambino con Maria e Giuseppe, e aver raccontato l’accaduto, i pastori «se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (Lc 2,20). Sono i primi che possono dire del Verbo fatto carne di aver «contemplato la sua gloria» (Gv 1,14).
Quei pastori, con quali sentimenti sono tornati al loro lavoro e alle loro case? Che ricordo avranno portato di quel bambino? Non possiamo azzardare risposte, ma certo saranno rimasti sorpresi e felici di esser stati scelti, loro poveri pastori, per udire e vedere quella meraviglia, di essere i primi destinatari dell’annuncio e i testimoni (gli unici citati dal vangelo) di quella notte di luce tanto splendente da legittimare una grande speranza. Che sentimento di sé avranno avuto, se non quello di una nuova dignità e quasi di un compito di memoria e comunicazione? La vita sarà apparsa loro più amabile e non vana, piena di una grandezza sconosciuta e di una speranza di salvezza. Lo stupore per il Bambino di Betlemme è tutt’uno con lo stupore dell’essere stati amati in modo così singolare. Avranno imparato ad amare se stessi in quanto scelti da Dio per contemplare il suo Verbo e destinati per grazia a un grande, anche se misterioso, destino.
Cari fratelli, noi stanotte facciamo memoria, nella preghiera, con le luci e lo scambio di auguri, della nascita nel mondo dell’Emmanuele, il Dio-con-noi. Non è forse anche la nostra nascita? “Con”: Dio in Gesù Cristo si fa nostra compagnia, cerca l’unione con noi. La lieta memoria di questo fatto rinnovi stanotte la coscienza del nostro essere “con” Lui, per sempre, in ogni tratto della esistenza, e susciti il sentimento della grandezza del nostro valore e destino. Noi siamo con Dio, poiché Egli si è unito, in qualche modo, a noi. A tutti noi. Egli è con noi, perché noi possiamo essere con Lui. La cosa stupefacente che è facendosi “carne” per “abitare” con noi, egli ha scelto proprio la carne, l’umano personale e sociale, effimero ma unico e prezioso, come punto di contatto con Lui. Prendiamo sul serio la nostra umanità, amiamola. Mentre l’odio è sempre disprezzo per la carne dell’altro, la sua concreta esistenza, l’amore al Verbo incarnato è sempre amore alla carne dell’uomo, alla sua unica e integrale esistenza. È questo il motivo più convincente per accogliere gli altri, per stringere con loro amicizia e così realizzare quella pace annunciata dagli angeli, dono di Dio affidato agli uomini.
Stringiamoci a questo Bambino divino, guardiamolo negli occhi per potervi veder rifletto il nostro volto. La verità di ciò che siamo può essere riconosciuta solo nello sguardo di un Dio che ci guarda con occhi e cuore umani.
In questa notte possiamo più facilmente assumere la responsabilità di edificare un mondo diverso, di amore e verità. Un ricordo mi ritorna sempre più spesso. Poco meno di due anni fa, ad Aleppo avevo incontrato, tra gli sfollati del terremoto che aveva devastato la Turchia e una parte della Siria, una giovanissima mamma che, stesa su un tappeto di coperte, teneva in braccio la bambina partorita tra le scosse. Mi ha messo tra le braccia la piccola Anin, che significa: Nostalgia. In mezzo a tante macerie, senza il padre e priva del latte della madre, la bambina sembrava raccogliere la memoria e la speranza della mamma e di quel popolo tormentato. Il Verbo di Dio è nato nella carne e abita tra noi per dare alla piccola Anin, e a tutte le creature che vengono al mondo, il futuro di felicità che sua mamma ha osato sperare, nonostante tutto, mettendogli quel nome. Ponendo nelle mie braccia la piccola Nostalgia, la mamma forse voleva affidarla alla forza e all’intelligenza di tutti coloro che possono far qualcosa per cambiare il mondo. Preghiamo il buon Dio, che si è fatto piccolo come Anin, di essere degni di tanta fiducia.
Davvero Dio sceglie i più poveri e i più semplici. Chiediamo stanotte questa semplicità e povertà di cuore e che si rinnovi anche per noi la grazia di quella luce e di quella gioia. Le nostri notti non siano più affollate dai fantasmi del passato e dalle paure del futuro, ma rischiarate dal sempre nuovo fulgore di Gesù.
Vieni Signore e illumina il nostro cammino, vieni in questa notte buia del mondo straziato dalla guerra, e guarisci il nostro cuore appesantito dal disamore e dalla noia del non senso. Torna a noi, o Luce divina, illumina i nostri passi e dacci quella gioia che cambia il mondo e fa sperare la felicità.