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Incontro diocesano gruppi “Santa Marta”. Riflessione del Vescovo

Incontro con i “Gruppi Santa Marta”,
in occasione della festa di Santa Marta, 29 luglio 2024,
presso la parrocchia SS. Vergine Assunta di Selargius

Intervento dell’Arcivescovo Giuseppe Baturi

Da tanto tempo pensavo a questo incontro di riflessione e preghiera. Voi svolgete dentro la Chiesa un’occupazione umile e spesso nascosta, anche per questo preziosa davanti a Dio. A nome di tutta la Chiesa di Cagliari esprimo la mia gratitudine per il vostro servizio perché contribuite alla manifestazione del mistero di Dio agli uomini e dell’amore degli uomini per Dio. Come una mamma esprime il suo amore per il suo bambino curandone la pulizia del corpo e dell’abbigliamento come pure la bellezza degli ambienti in cui vive, così voi manifestate il vostro amore a Gesù Cristo prendendovi cura della dignità della Chiesa, della bellezza della liturgia e dell’accoglienza dei fedeli.

Vi propongo alcune riflessioni, provando a estrarre dal tesoro della Chiesa «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,53) utili, almeno spero, a comprendere il valore dei “Gruppi Santa Marta”.

  1. Il decoro del luogo di culto

In termini sintetici, il can. 932 dell’attuale Codice di Diritto Canonico prescrive che la celebrazione eucaristica deve essere compiuta «in un luogo decoroso». Decoroso, cioè veramente adatto al mistero che vi si celebra. Il Concilio Ecumenico Vaticano II si esprime potentemente sulla stessa indicazione: «La casa di preghiera – in cui l’eucaristia è celebrata e conservata; in cui i fedeli si riuniscono; in cui la presenza del Figlio di Dio nostro Salvatore, offerto per noi sull’altare del sacrificio, viene venerata a sostegno e consolazione dei fedeli – dev’essere nitida e adatta alla preghiera e alle celebrazioni liturgiche» (Presbyterorum ordinis n. 5). La dignità del luogo è collegata alla grandezza del mistero che deve ospitarvi. La chiesa deve essere pulita e chiara proprio perché è destinata a ospitare le sacre funzioni e a custodire l’eucarestia, ad accogliere l’assemblea dei fedeli e la loro preghiera. Essa stessa, in qualche modo, deve partecipare al sostegno e alla consolazione dei fedeli, contribuendo a una celebrazione esatta e alla partecipazione dei fedeli (cf. Sacra Congregazione dei Riti, Istruzione Eucharisticum Mysterium, 25 maggio 1967, n. 24).

In termini riassuntivi, nei Praenotanda al Messale Romano è detto che per «la celebrazione dell’Eucaristia, il popolo di Dio si riunisce di solito nella chiesa oppure, se questa manca o è insufficiente, in un altro luogo decoroso che sia tuttavia degno di un così grande mistero. Quindi le chiese, o gli altri luoghi, siano adatte alla celebrazione delle azioni sacre e all’attiva partecipazione dei fedeli» (OGMR n. 288). Certamente è possibile che la liturgia sia celebrata in ambienti di fortuna o in circostanze contraddittorie, come nei campi di prigionia, o in ambienti naturali, ma in modo ordinario, per quanto dipende da noi, è assai conveniente che il mistero d’amore di Cristo sia manifestato in contesti di bellezza, di ordine, di pulizia. La bellezza della chiesa, infatti, è segno del mistero dell’amore di Cristo che si offre come nutrimento agli uomini invitati alla sua mensa. La bellezza è splendore della verità di «così grande mistero», il mistero del Dio fatto uomo per amor nostro, per noi morto, risorto e presente tra noi e di cui attendiamo il ritorno glorioso. Occorre pulire e aver cura delle nostre chiese con la memoria della carità di Cristo negli occhi e nel cuore.

L’episcopato italiano, trattando de L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica (Nota pastorale della Commissione episcopale per la Liturgia del 31 maggio 1996), afferma che nelle chiese tutto deve concorrere «a creare un’atmosfera, nobile, accogliente e festosa» (n. 15). Interessanti gli aggettivi: nobile, mai banale o grossolana; accogliente, evitando, per quanto possibile, condizioni di disagio fisiologico e psicologico, rendendo agevoli i movimenti e promuovendo l’inserimento di anziani, disabili e bambini; festosa, perché deve potersi percepire anche con i sensi che non siamo invitati a commemorare un passato o a proclamare un’idea, pur grandiosa. Siamo chiamati alla festa dell’incontro con il Risorto.

«Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un’idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è» (Francesco, Lett. Ap. Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, n. 10).

Per creare questa atmosfera nobile, accogliente e festosa, servono fiori, suppellettili, candelieri, luci; servono “segni” che parlino, che manifestino la cura dei particolari, il nostro amore a Cristo e ai fratelli che in Chiesa vanno per incontrarLo. L’amore a Cristo e ai fratelli salva sia da «un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore» sia da un atteggiamento che «confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico» (Francesco, Lett. Ap. Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, n. 22).

Comprendiamo quanto sia importante cogliere i valori teologici dei diversi luoghi di una chiesa: del portale d’ingresso come dell’area battesimale, della navata e delle cappelle laterali, dell’altare come dell’ambone. Saper riconoscere il valore teologico e simbolico delle diverse parti delle chiese, aiuta anche ad evitare interventi grossolani, troppo personalistici, come una certa invadenza di cartelloni o volantini vari, talvolta dal contenuto banale o meramente informativo. Scegliere il luogo giusto per le diverse comunicazioni e installazioni è questione di gusto e di ordine.

Ringrazio voi, Gruppi Santa Marta, per l’espressione di questo gusto che è vera manifestazione d’affetto.

 

  1. Il decoro delle suppellettili per la liturgia

Non solo i luoghi, ma anche gli oggetti devono essere degni e vanno custoditi con amore. Per l’Ordinamento Generale del Messale Romano non solo i «luoghi sacri» ma anche «le cose che servono al culto» devono essere «davvero degni, belli, segni e simboli delle realtà celesti» (n. 288). Gli oggetti per il culto non sono meri accessori funzionali ma essi stessi devono trasmettere un messaggio di bellezza; non sono solo strumenti, ma segni e simboli del mistero per la celebrazione del quale sono impiegati.

Nell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), Benedetto XVI afferma che «è necessario che in tutto quello che riguarda l’Eucaristia vi sia gusto per la bellezza. Rispetto e cura dovranno aversi anche per i paramenti, gli arredi, i vasi sacri, affinché, collegati in modo organico e ordinato tra loro, alimentino lo stupore per il mistero di Dio, manifestino l’unità della fede e rafforzino la devozione» (n. 41). Che grande insegnamento! Tutto ciò che riguarda l’Eucarestia deve manifestare un gusto per la bellezza, deve poter suscitare uno stupore che manifesta al tempo stesso, insegna Francesco, sia la «vicinanza che l’incarnazione ha voluto» sia «l’alterità della presenza di Dio», quella «eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà» (Francesco, Lett. Ap. Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, n. 25).

Voi contribuite al rispetto e alla cura dei beni destinati alla liturgia affinché possano manifestare la fede e suscitare lo stupore per il mistero di Dio. Le suppellettili per il culto devono, dunque, essere veramente belle, non banali, ma semplici e aderenti alla funzione alla quale devono rispondere nel contesto delle celebrazioni. Se queste indicazioni riguardano in primo luogo gli artisti e gli artigiani chiamati a confezionare gli oggetti per la liturgia, in qualche modo riguardano anche coloro che devono provvedere alla loro diligente e devota custodia.

Naturalmente esiste una notevole differenza tra i vari oggetti, poiché́ alcuni, come i vasi sacri, sono di uso esclusivamente liturgico, altri, invece, come i vasi per i fiori, i candelieri o le ampolline, vengono usati anche fuori della liturgia. Per i primi, San Girolamo raccomandava: «I sacri calici e i santi paramenti ed il resto che riguarda la Passione del Signore… sono da venerare con lo stesso onore del suo Corpo e Sangue, per l’attinenza al Corpo e al Sangue del Signore» (S. Girolamo, Epist., 114, 2).

Come il Lezionario e l’Evangeliario sono in stretta relazione con l’ambone, così la patena e il calice sono in strettissima relazione con l’altare e pertanto non possono essere considerati alla stregua di semplici oggetti d’arredamento.

Una bella decorazione floreale, invece, ha il compito di valorizzare i differenti luoghi della celebrazione, non di nasconderli, come anche i diversi tempi liturgici, oltre che i vari stili architettonici delle chiese. Questi sono semplici accenni a questioni che devono essere riprese e divenire acquisizione comune.

Non dimentichiamo mai, per favore, che «questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» (Messaggio del Concilio agli artisti, 8 dicembre 1965), e che la «bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all’adorazione» (Francesco, Lett. Ap. Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, n. 25).

Siate custodi e artigiani di bellezza!

 

  1. La custodia delle cose

Per il vostro servizio, usate tanti oggetti, strumenti di lavoro e utensili vari. Per comprendere l’importanza della loro custodia e impiego, vorrei citare alcune prescrizioni della Regola di San Benedetto circa i beni del monastero, che ben possono essere applicate ai beni delle nostre chiese.

Al cellario Benedetto, dopo aver indicato come trattare i fratelli, i malati, i ragazzi, gli ospiti e i poveri e dopo aver raccomandato di custodire la propria anima, indica come trattare le cose: «Tratti gli oggetti e i beni del monastero con la reverenza dovuta ai vasi sacri dell’altare e non tenga nulla in poco conto» (Cap. 31,10). Gli oggetti del monastero meritano un rispetto quasi sacro, tanto che non è ammissibile una qualche trascuratezza. Pertanto, l’abate deve scegliere monaci su cui possa contare a motivo della vita virtuosa per affidare loro «arnesi o vesti o qualunque altra cosa», perché «li custodiscano e li raccolgano», senza esitare a rimproverare nel debito modo coloro che trattassero tali cose «con poca pulizia o negligenza» (Cap. 32). Anche gli utensili, infatti, sono destinati a dare gloria a Dio. Così, ad esempio, alla fine del servizio in cucina, il fratello deve riconsegnare «puliti e intatti al cellerario tutti gli utensili di cui si è servito nel proprio turno» (Cap. 35). La diligenza con la quale si prendono, si usano e si riconsegnano gli oggetti manifesta il nostro amore e rende la chiesa una casa accogliente. I beni che usiamo per il nostro lavoro per gli altri, per il bene comune, sono sempre il frutto della carità dei fedeli e non è accettabile che vengano dispersi o maltrattati, anzi vanno sempre usati con la massima diligenza.

Per Sant’Agostino l’uso ordinato delle cose testimonia la comunione e la carità fraterna all’interno di una comunità: «Allo stesso modo nessuno mai lavori per se stesso ma tutti i vostri lavori tendano al bene comune e con maggior impegno e più fervida alacrità che se ciascuno li facesse per sé. Infatti, la carità di cui è scritto che non cerca il proprio tornaconto, va intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Per cui vi accorgerete di aver tanto più progredito nella perfezione quanto più avrete curato il bene comune anteponendolo al vostro». La carità che manifestate col vostro umile lavoro nelle chiese consiste proprio in questo lavorare non per se stessi ma per il bene comune, per la pietà di tutti. Ci si serve di oggetti il cui uso deve rendere manifesta la carità: «E così su tutte le cose di cui si serve la passeggera necessità, si eleverà l’unica che permane: la carità» (Regola 5,32). Servendosi delle cose per le necessità temporanee della comunità, a servizio del bene di tutti, si afferma man mano la carità che non finisce. Le cose della chiesa sono frutto della carità dei fedeli e sono destinate a servire di tutti. La carità si esprime anche nella cura dei beni che la chiesa ci affida.

 

  1. L’accoglienza in chiesa

Sarebbe bello poter, come durante la pandemia, rendere abituale il servizio di accoglienza in chiesa.

Fino al Motu Proprio Ministeria quaedam di Paolo VI (15 agosto 1972) tale servizio veniva collegato, nella Chiesa latina, all’Ostiariato, un “ordine minore” riservato, insieme al Lettorato, all’Esorcistato e all’Accolitato, a quanti, appunto attraverso gli ordini minori, erano in cammino verso l’ordine sacro. All’ostiario competeva l’ufficio di aprire e chiudere la porta della chiesa, custodirla, impedirne l’accesso agli indegni e suonare le campane. Paolo VI decise di conservare e adattare solo gli uffici del Lettore e quello dell’Accolito, mentre ritenne che gli altri uffici, come quello dell’Ostiario, potessero essere affidati «a coloro che sono addetti alle opere di carità» e quindi anche ai laici. L’accoglienza dei fedeli convocati all’assemblea liturgia è un’opera di carità.

Gli ostiari, anticamente, costituivano una sorta di “servizio d’ordine”, essendo destinati a sorvegliare l’edificio sacro durante le assemblee liturgiche. Secondo la testimonianza della Didascalia degli Apostoli, nelle Chiese orientali, l’ufficio dell’ostiario era svolto da un diacono che aveva il compito di osservare quelli che entravano in chiesa e di indicare a ciascuno il posto che doveva occupare (2,57,6; 2,58,1). In chiesa, poi, il diacono doveva anche sorvegliare che ciascuno stesse nel posto (settore) assegnato e vigiliare perché nessuno «parlotti, o sonnecchi, o rida, o faccia gesti»: «In Chiesa, infatti, bisogna stare vigili, con disciplina e sobrietà, e avere orecchie attente alla parola del Signore» (2,57,10-11). Nello stesso senso, le Costituzioni dei Santi Apostoli, rappresentando la chiesa come una nave, assimilavano l’opera di chi stava alla porta a quella degli assistenti di bordo, e quella di chi garantiva l’ordine in chiesa a quella del sottufficiale di bordo (II,57,10-11). Proprio un bel segno questa figura di accoglienza sulla soglia e di ordine dentro l’edificio di culto.

Sempre il nostro maestro Benedetto ci aiuta a comprenderne il valore. I portinai (ostiari) erano monaci che stavano sulla soglia, attenti a chiunque entrasse in contatto con il monastero. Il portinaio doveva essere non un giovane o un monaco poco esperto al quale non poteva essere affidato incarico più grave, ma «un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra». Alla porta serve un uomo maturo saggio, concentrato sull’accoglienza e non disperso in servizi e chiacchiere inutili. Benedetto qualifica in questo modo la sua opera: «Appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: “Deo gratias!” Oppure: “Benedicite!” e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un’ardente carità” (Cap. 66). In una sola frase, a proposito di un servizio spesso trascurato o sottovalutato, ricorrono le parole “timor di Dio”, “grande premura” e “ardente carità”. Saper tener insieme questi atteggiamenti è vera maturità, grande saggezza.

Chi entra in chiesa deve poter incontrare persone mature e sagge (almeno due) che lo richiamino a Dio, che lo introducano nella comunità e che testimonino un’ardente carità verso i bambini, gli anziani, i poveri. Andando in chiesa, sarebbe bello che i nostri fedeli incontrassero non una porta da aprire o una bussola in legno, ma persone amiche, volti premurosi. Dell’importanza di questo servizio di carità può dirsi anche a proposito di chi risponde al telefono o svolge un compito qualsiasi in segreteria, di chi sta sulla “soglia”.

È proprio difficile pensare all’organizzazione di questo impegno di carità, almeno in certi momenti della domenica e dei giorni festivi?

 

  1. Fare, senza disperdersi

Chiediamo a Santa Marta di insegnarci a servire il Signore presente.

«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, l’accolse nella sua casa. Aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti! Ma Gesù le rispose: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria s’è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 38-42).

Il Signore Gesù invita Marta a non dissiparsi per le (nelle) molte cose da fare. È un richiamo a restare ben ancorati all’unica cosa necessaria, quella di cui davvero abbiamo bisogno. Anche noi potremmo agire, lavare, ordinare, essere impegnati, smarrendo il “perché” di ciò che facciamo, la ragione profonda del nostro servizio. Bisogna invece restare discepoli del Maestro perché la nostra azione sgorga dal dono di ciò che non può esserci tolto, dall’amore che non passa. È necessario che la nostra opera nasca dalla memoria viva della presenza di Gesù che per amor nostro si fa servire. Insegna Sant’Agostino: «Marta lo accolse [il Signore] come si è soliti accogliere i pellegrini, e tuttavia accolse il Signore come serva, il Salvatore come inferma, il Creatore come creatura. Lo accolse per nutrirlo nella carne, mentre era lei che doveva essere nutrita nello spirito. Il Signore infatti volle prendere la natura di servo ed essere nutrito in questa natura dai servi, per condiscendenza, non per esigenza. Poiché fu una condiscendenza anche quella di offrirsi per essere nutrito». È per amor nostro che si lasciò servire da Marta nel suo corpo fisico, e nel suo corpo mistico, che è la Chiesa, da noi. Che possiamo interessarci del suo corpo è un grande dono: «Aveva sì un corpo con cui sentiva fame e sete, ma non sapete che quando nel deserto egli ebbe fame andarono a servirlo gli angeli? Il fatto dunque che volle essere nutrito, fu un dono da lui concesso a chi lo nutriva» (Discorso 103,1.2). Noi ci prendiamo cura di Gesù Cristo che continua ad aver fame e sete nel suo corpo che è la Chiesa.  È un dono che possiamo nutrire il suo corpo mistico che ha fame e sete, un dono che il Signore ci accorda perché possiamo alimentare il nostro amore per Lui e per la sua Chiesa. Coloro che fanno la volontà del Padre sono sue sorelle, fratelli e madri (cf. Mt 12,50).

Per non disperderci serve che tutto nasca dalla memoria di Cristo, dallo stare ai piedi di Gesù per imparare il suo amore per la Chiesa e il mondo. Solo ai piedi di Gesù possiamo amare la Chiesa come Cristo la ama, perché Cristo la ama, e servirla. Solo ai piedi di Gesù, il nostro servizio alla Chiesa può essere purificato dalle molteplici motivazioni ambigue che spesso albergano tra noi e nel fondo di noi stessi (protagonismo, potere…).

Solo ai piedi di Gesù possiamo comprendere il suo amore alla Chiesa e servire la Chiesa per amor suo e non per soddisfazione nostra. Siete gente attiva e al tempo stesso siete chiamati ad essere contemplativi, nel silenzio della preghiera. In tal modo potremo anche esercitare la nostra responsabilità sollecitando quella degli altri, invitando altri a fare altrettanto, a coinvolgersi, a far crescere altri nella stessa passione.

La Madonna ha unito in se stessa l’operatività di Marta e la contemplazione di Maria. Per trent’anni nel silenzio di Nazaret ha cercato, amato e servito Dio prendendosi cura di quel figlio che cresceva, nella materialità e concretezza delle sue esigenze (pulendo la casa e gli abiti, preparando il cibo…).

Quella dei gruppi di Santa Marta è una bella vocazione di servizio e accoglienza. Ricordiamo con gratitudine la promessa del Signore Gesù:

«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,40-42).

Prego il Signore che vi doni la sua ricompensa, quella promessa a chi sa accogliere e prendersi cura dei suoi discepoli, la ricompensa della gioia che nessuno può togliere, dell’amore che resta per sempre.

Grazie!

 

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