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Festa di San Saturnino, patrono di Cagliari. Messaggio dell’Arcivescovo alla città

San Saturnino 2022
MESSAGGIO ALLA CITTÀ
dell’Arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi

Primi Vespri, Basilica di San Saturnino, 29 ottobre 2022

 

Gentili autorità religiose, civili e militari,

Fratelli e sorelle in Cristo,

1. ammetto che l’espressione “Messaggio alla Città” possa sembrare troppo enfatica. È bene dunque manifestare espressamente l’intenzione che la giustifica. La festa annuale del giovane Saturnino, patrono della Cagliari, può essere l’occasione propizia per suscitare, o almeno sostenere e alimentare, un dibattito ampio sul destino della nostra città e per inserire in esso la voce della Chiesa. Non è certamente un caso che la Chiesa affidi all’intercessione dei santi non solo le singole persone ma anche gruppi di fedeli e le comunità locali, città e regioni. L’uomo concreto è sempre dentro una rete di relazioni comunitarie. La Bibbia ne parla per la prima volta in Gen 4,17 attribuendo a Caino la costruzione della prima città, cui diede lo stesso nome del figlio, Enoc. Il racconto tradisce un giudizio negativo sulla città e sulla violenza che in essa può aver luogo. Ma il termine ultimo della storia della salvezza, il punto di approdo del pellegrinaggio terreno è, nella rivelazione biblica, una Città nuova, la Città santa. La pienezza del cammino dell’umanità e della storia si realizza in una città nella quale non vi è alcun tempio perché “il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né ella luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello… Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte… Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (Ap 21,9-27).

La comunità cristiana è inserita profondamente nel tessuto di questa città, come in tutte, con lo stesso atteggiamento indicato dalla Lettera a Diogneto. I cristiani “risiedono in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera” (V.1). In nessun modo questo modo di vita paradossale è segno di distacco e incuria. Anzi. Scrive Papa Francesco, nel suo documento programmatico, l’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium: “Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia” (n. 71). Abbiamo bisogno di riconoscere la città con sguardo puro, per scoprire in essa il Dio-con-noi, il Dio che abita in città.

Sento il bisogno, da Vescovo, cioè nell’esercizio del compito che mi è stato affidato, di “osservare con amore”, di “guardare con attenzione” (il termine episcopo indica colui che sorveglia, che vigila), di proporre uno sguardo contemplativo (che riconosce il valore di qualcosa con gratuità, al di là della sua utilità) capace di farci riconoscere la città come ambiente di preziose relazioni, realtà da amare.

2. È uno sguardo quello che ebbe il Servo di Dio Giorgio La Pira, nato a Pozzallo (Ragusa), ma giustamente conosciuto come il Sindaco di Firenze. Egli è testimone di questo sguardo contemplativo, pieno di stima e fiducia. Inaugurando, nel 1954, la città satellite dell’Isolotto ‒ nata per rispondere al grave problema abitativo offrendo “non case ma città” ‒ il Sindaco diceva ai primi inquilini ai quali aveva appena consegnato le chiavi: “Amate questa città come parte integrante, per così dire, della vostra personalità. Voi siete piantati in essa e in essa saranno piantate le generazioni future che avranno in voi radice. È un patrimonio prezioso che voi siete tenuti a tramandare intatto, anzi migliorato ed accresciuto, alle generazioni che verranno”. L’analogia più significativa è quella della casa, nella quale tutto tende a esprimere una organicità di relazione e dove si incontrano generazioni diverse. “La città è una casa comune in cui tutti gli elementi che la compongono sono organicamente collegati; come l’officina è un elemento organico della città, così lo è la Cattedrale, la scuola, l’ospedale. Tutto fa parte di questa casa comune. Vi è dunque una pasta unica, un lievito unico, una responsabilità unica che è collegata ai comuni doveri.” Come in ogni casa, vi è un futuro da costruire, una vocazione da custodire. “Ogni città racchiude in sé una vocazione e un mistero: ognuna è nel tempo una immagine lontana della città eterna. Amatela dunque come si ama la casa comune destinata a voi e ai vostri figli”. Amare la città come un mistero e una vocazione da ricercare, custodire, servire. È la responsabilità di chi esercita il governo: “Il nostro compito di guide delle città è pensare, è essenzialmente quello di meditare: se non meditiamo siamo soltanto dei direttori generali”. Nello stesso anno, parlando al Comitato Internazionale della Croce Rossa (Ginevra, 12 aprile 1954), diceva che “Le città hanno una loro vita e un loro essere autonomi, misteriosi e profondi: esse hanno un loro volto caratteristico e, per così dire, una loro anima e un loro destino: esse non sono occasionali mucchi di pietre, ma sono le misteriose abitazioni di uomini e, vorrei dire di più, in un certo modo le misteriose abitazioni di Dio”. Le città sono “unità viventi – veri microcosmi in cui si concentrano i valori essenziali della storia passata e veri centri da cui si irraggiano i valori per la stessa storia futura”. Si resta stupiti dal linguaggio di La Pira, linguaggio d’amore, davvero contemplativo, realistico e aperto al futuro. La città è parte della personalità, come sua radice. Introducendo il primo Colloquio internazionale dei sindaci delle capitali, 1955 afferma: “non è forse vero che la città è il domicilio organico della persona? Il luogo essenziale, in certo modo, della sua genesi, del suo sviluppo e del suo perfezionamento? Non è forse vero che la persona umana si radica nella città, come l’albero nel suolo? Che essa si radica negli elementi essenziali di cui la città consta: e cioè, nel tempio per la sua unione con Dio e per la vita di preghiera; nella casa, per la sua vita di famiglia; nella officina, per la sua vita di lavoro; nella scuola, per la sua vita intellettiva, nell’ospedale, per la sua vita fisica? Non solo: ma proprio per questa relazione così vitale e permanente che esiste fra le città e l’uomo, la città è lo strumento in certo modo appropriato per superare tutte le possibili crisi cui la storia umana e la civiltà umana vanno sottoposte nel corso dei secoli”. Proprio questo intimo rapporto tra la città e la persona rendeva consapevole La Pira del ruolo della città nella lettura della crisi che intravvedeva a metà degli anni 50: “Una delle cause fondamentali di questa crisi -una crisi che tocca le concezioni basilari della persona umana, della società umana, della storia umana- non sta forse nella crisi della città? Crisi di sradicamento, come è stato giustamente detto: sradicamento della persona dalla città, da cui la persona trae perfezione e misura! Perché la persona umana è in qualche modo definita dalla città in cui si radica: come la pianta dal suo campo. La città con le sue misure, il suo tempio, le sue case, le sue strade, le sue piazze, le sue officine, le sue scuole, rientra in qualche modo nella definizione dell’uomo!”. L’esigenza di un radicamento profondo e di un amore vero è esaltata, non indebolita, dalla circostanza che la città che viviamo non è sempre quella in cui siamo nati e che essa è sempre più definita dalla varietà delle culture e delle tradizioni dei suoi abitanti. Serve un radicamento diverso, un amore nuovo. Amore per i tesori della natura che si lascia contemplare e i valori della cultura che le generazioni hanno depositato nelle nostre strade e palazzi, amore per il volto di chi in essa vive e lavora. Se la città ha davvero un proprio volto e una peculiare vocazione, occorre discuterne con ampiezza di visione e lealtà di confronto. E tocca a noi dialogare e invitare tutti a dialogare sulla qualità delle relazioni che viviamo e della casa che ci ospita e sul futuro che comunque stiamo costruendo. Questa città di Cagliari è da amare, da custodire e consegnare alle generazioni che verranno più bella e ospitale.

Queste considerazioni non possono estraniarsi da un momento storico drammatico a causa della guerra che si combatte in Ucraina con il suo portato di dolore e morte. Intere città distrutte e abbandonate, popolazioni fuggite, morte e violenza. L’intuizione che portò il professore fiorentino a convocare i 5 Convegni internazionali dei sindaci è che ogni città ha un destino legato alle altre e quindi può incidere ‒ e sempre di fatto incide ‒ sul destino di tutta l’umanità. Al primo convegno internazionale dei Sindaci, a Firenze nel 1955, si dichiara solennemente: “Affermiamo il valore delle città quale patrimonio spirituale e materiale di vitale importanza per tutta l’umanità: patrimonio che le generazioni passate hanno affidato alle generazioni presenti perché sia trasmesso – aumentato e in nessun modo dilapidato – alle generazioni future”. Le città si fecero in quel frangente promotrici di pace nel Mediterraneo e nel mondo, protagoniste di una propria diplomazia.

3. L’ispirazione di La Pira sul valore della città e il ruolo di pace è stata di recente ripresa nel 2° incontro Mediterraneo frontiera di pace tenutosi a Firenze dal 23 al 27 febbraio 2022, che ha visto impegnati 60 Vescovi dei vari paesi del Mediterraneo. Contemporaneamente, 66 Sindaci provenienti dalla stessa area, invitati dal Sindaco di Firenze, dott. Nardella, si sono radunati sempre a Firenze, anch’essi ispirandosi alle iniziative del Sindaco La Pira, per studiare e lavorare per la pace, la giustizia e la convivenza fraterna nelle loro città. Sabato 26 i due gruppi, sindaci e vescovi, hanno lavorare insieme, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, nel rispetto delle diverse competenze e in perfetta parità. Una cosa nuova, un incontro mai realizzato prima. Dopo un ampio dibattito assembleare, si è proceduto alla lettura e alla firma della Carta di Firenze, nella quale i partecipanti all’incontro hanno voluto convenire “su alcuni ideali e valori ai quali ispirare il futuro cammino, diminuire discriminazioni e violenze e aprire orizzonti di speranza delle giovani generazioni” (dalla Carta). L’esito dell’inedito incontro è tanto più significativo se si pensa che il 24 febbraio era scoppiata la guerra in Ucraina e che sindaci e vescovi si erano trovati unanimi nel chiedere che la violenza e le armi tacessero e venissero ricostruite le condizioni della pace nella giustizia.

Cagliari ha avuto la sorte di vedere come firmatari della Carta sia il Sindaco, dottor Paolo Truzzu che me, Vescovo di questa Arcidiocesi. Mi chiedo se questa circostanza non possa indicare un compito, una vocazione di pace e di dialogo della nostra città nel contesto del Mediterraneo. Ho poi scoperto, che proprio a Cagliari, in occasione del Convegno internazionale su “Le condizioni per lo sviluppo dei Paesi dell’area mediterranea», organizzato il 19-21 gennaio 1973 dalla Regione Sardegna e dall’Istituto per le relazioni tra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina e Medio Oriente (IPALMO), Giorgio La Pira, quattro anni prima della morte, aveva riassunto in un lungo discorso un ventennio di storia del Mediterraneo e di iniziative di pace.

4. Non è possibile qui raccogliere la ricchezza di idee di quell’esperienza recente e senza precedenti. Della Carta di Firenze vorrei riprendere alcune piste di lavoro che possono essere motivo di riflessione e azione politica, culturale e sociale.

a) La Carta si afferma che “la diversità del patrimonio e delle tradizioni dell’area mediterranea come patrimonio condiviso per tutta l’umanità. Tutti i valori naturali, ambientali, culturali, linguistici e religiosi del Mediterraneo, materiali e immateriali, sono visti come fonti di dialogo e unità tra i nostri popoli e dovrebbero essere protetti e trasmessi alle generazioni presenti e future”. La sfida è che la diversità delle culture e delle storie possa essere riconosciuta come motivo di confronto e incontro, non di estraneità. Il Mediterraneo per la sua conformazione, per il suo essere crocevia di interessi e di tradizioni antiche di natura sociale, politica, religiosa ed economica, provoca i popoli e le culture che vi si affacciano alla prossimità, invitandoli a fare memoria di ciò che li accomuna, a superare motivi di conflitto e a ricordare che solo vivendo nella concordia possono godere delle opportunità che questa regione offre. Il Mediterraneo rimane una zona strategica, anche in tempi di globalizzazione, e l’equilibrio che esso può esprimere può avere riflessi positivi sulle altre parti del mondo. Sapremo sviluppare azioni nei quali i valori delle civiltà del Mediterraneo, che incontriamo sempre più spesso incarnate nelle popolazioni che vivono nella nostra città, siano riconosciute e valorizzate come patrimonio comune e occasione di incontro?

b) La Carta di Firenze individua un privilegiato ambito di lavoro per la pace nella predisposizione di programmi educativi a tutti i livelli, e sottolinea l’importanza di creare programmi universitari comuni al fine di introdurre i giovani di tutta la regione mediterranea a una migliore conoscenza rispettosa delle tradizioni e delle particolarità culturali di ogni Paese. In generale si riconosce l’urgenza di sforzi condivisi, tra governi, sindaci e rappresentanti di comunità religiose, per un impegno educativo che parta dai bisogni primari, comuni a tutti gli esseri umani, e che possa guidare i giovani nel cammino che conduce al desiderio del bene, dell’amore, della giustizia e della libertà. È bello pensare a un impegno collettivo che punti sul desiderio di bellezza, di vita e di verità che è nel cuore di uomo e in particolare di quello dei giovani. Non è possibile in alcun modo sottovalutare l’importanza dell’educazione per lo sviluppo di un contesto di pace. L’educazione, infatti, rende la persona più libera e responsabile e quindi più attende a generale speranza. L’educazione, infatti, non serve solo alla trasmissione e alla costruzione dei saperi, ma costituisce un’importante forma di partecipazione ed edificazione sociale. Non c’è pace, non c’è democrazia né reale pluralismo culturale senza una efficace azione educativa, perché la tensione alla verità che è propria dell’educazione suppone l’affermazione del valore assoluto dell’uomo, di ogni uomo, che deve essere accolto e rispettato come un dato in nessun modo manipolabile, insieme alla stima per la grandezza della sua coscienza. Su queste fondamenta può svilupparsi un’educazione che ami la libertà, la capacità critica, il pluralismo, la pace. Pluralista e pacifica è una società nella quale le differenti libertà umane possano affermarsi, secondo la verità riconosciuta dalla coscienza, senza contraddirsi. Lo sviluppo di una socialità davvero libera e plurale esige l’umile e progressiva educazione a una conoscenza critica, e suppone il bene assoluto dell’uomo e della sua coscienza. Serve anche in Sardegna un patto per l’educazione e l’istruzione, anche per lottare contro la povertà educativa e la dispersione scolastica. È triste constatare che, negli ultimi anni, siano diminuite in modo significativo, a livello mondiale, le spese per l’educazione, mentre le spese militari hanno superato addirittura il livello registrato al termine della “guerra fredda” e che sembrano destinate a crescere ancora.

c) La Carta chiede che i Governi, Sindaci e Rappresentanti delle comunità religiose promuovano iniziative condivise per il rafforzamento della fraternità e della libertà religiosa nelle città, per la difesa della dignità umana dei migranti e per il progresso della pace in tutti i paesi del Mediterraneo. Si può scommettere sullo sviluppo di maggiori opportunità di dialogo e di incontro costruttivo tra le diverse tradizioni culturali e religiose presenti nelle nostre comunità cittadina, al fine di rafforzare i legami di fraternità che esistono nella nostra regione. Si può scommettere su questo. I “Rappresentanti delle comunità religiose, a esplorare come possano interagire tra loro e con i rappresentanti dei governi municipali e dei leader civici al fine di comprendere le cause e le ragioni della violenza e, quindi, lavorare insieme per eliminarla”. La causa della violenza è sempre un squilibrio profondo del cuore dell’uomo e si esprime come contrapposizione tra il mio e il tuo, l’io e l’altro. Durante la guerra terribile nella ex Jugoslavia, San Giovanni Paolo II (9 gennaio 1993, 5), diceva, anzi gridava: «I conflitti che sorgono intorno a noi, la fame, le privazioni, gli stenti che affliggono e tormentano tanti esseri umani da un capo all’altro del mondo, sono una sfida per tutti coloro che si professano seguaci di Cristo. Tante sciagure non sono forse il riflesso di quella lotta che oppone il male al bene, che contrappone ad una società basata sull’egoismo e sulla cupidigia la civiltà dell’amore? Cristo ci chiama a non lasciarci vincere dal male, ma a vincere con il bene il male (cf. Rm 12, 21), a costruire una civiltà in cui regni supremo l’amore, e che ponga in primo piano il rispetto dell’“altro”. È mai possibile privare un uomo del diritto alla vita e alla sicurezza perché egli non è uno di noi, perché è l’“altro”? Privare una donna del diritto alla sua integrità e alla sua dignità perché non è una di noi, perché è l’“altro”? E, ancora, privare un bambino del diritto a un tetto che lo ripari e del diritto a nutrirsi perché è un bambino che sta dalla parte degli “altri”? “Noi”, “loro”, non siamo forse tutti figli di un solo Dio, suoi figli diletti?». «Il “mio” e il “tuo”, queste fredde parole che introducono nel mondo infinite guerre» (Giovanni Crisostomo).

Contro la contrapposizione tra il proprio particolare assolutizzato e quello dell’altro, serve una ripresa del senso religioso, della ricerca comune di un unico che possa comprendere la verità e il bene che è di tutti e nel quale tutti possono sentirsi abbracciati. Per noi cristiani vale la parola della fede. Cristo “ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia” (cf. Ef 2, 14); Lui “ha distrutto in sé l’inimicizia” per “riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo per mezzo della croce” (cf. Ef 2,16). Come può ancora esistere l’inimicizia, l’odio, la violenza omicida? Il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, noto anche come Dichiarazione di Abu Dhabi, firmato dal Santo Padre e dal Grande Imam di Al-Azhar il 4 febbraio 2019 dichiarava solennemente che «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». E quindi «l’importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni». I pellegrini della verità sono sempre anche pellegrini della pace. Troviamo modi nuovi per riconoscerci in cammino, uniti nell’impegno per la dignità dell’uomo e la causa della pace contro ogni specie di menzogna e violenza distruttrice. La città può essere l’ambito adeguato perché le esperienze e le tradizioni religiose possano incontrarsi e costruire legami ed esperienze di pace.

d) La Carta di Firenze impegna i Sindaci a discutere ed esplorare ciò che idealmente tiene insieme oggi una società civile e come i contesti contemporanei integrano tradizioni religiose ed espressioni culturali. Cosa può unire oggi la società, cosa può legarci in una unica convivenza pacifica, come può contribuire in questa ricerca la nostra identità religiosa e cristiana e l’esempio del giovane Saturnino? È questo il vero terreno di sfida e di confronto. Cosa tiene unito il tessuto della città? Serve una comunione più profonda, una condivisione nuova. La qualità di una comunità si riconosce per il sentimento di una appartenenza reciproca, per l’emergere di un noi solidale che non annulla l’io, ma integra e lo compie. L’io personale vive nel dono e nella responsabilità del noi.

Ho voluto soprattutto esortare ad amare questa città, a lavorare insieme per farne un luogo di pace, ambasciatrice di concordia.

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