19 giugno 2022, Meditazione al termine della processione del Corpus Domini
Basilica Nostra Signora di Bonaria
Fratelli e sorelle carissimi,
la processione che ha attraversato la nostra amata città ha manifestato la natura della Chiesa come comunità che cammina, comunità di sequela. Abbiamo camminato seguendo la presenza eucaristica di Cristo e l’abbiamo offerta alla considerazione dei nostri fratelli uomini come motivo di speranza, ragione di vita, promessa di gioia e bellezza.
Non è certo un caso. Abitiamo la città come fermento di vita nuova. «La famiglia ecclesiale dei discepoli – e di tutti gli ospiti che cercano in essa le ragioni della speranza (cfr 1Pt 3,15) – è stata seminata sulla terra come «sacramento […] dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1)» (Francesco, Lett. Humana communitas, 4). Siamo seminati sulla terra. Oppure, per usare l’immagine della Lettera a Diogneto, i «cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima si trova in ogni membro del corpo; ed anche i cristiani sono sparpagliati nelle città del mondo». La famiglia dei credenti è seminata sulla terra e sparpagliata nelle città degli uomini per essere segno luminoso dell’unione con Dio e tra gli uomini. Per questo abbiamo attraversato le strade, portando in processione il nostro tesoro più caro, per imparare di nuovo ad abitare con santo entusiasmo i luoghi degli uomini, parlando le loro lingue, stando dentro le loro storie, per inserire nell’esperienza concreta della città, come il buon lievito del vangelo, l’annuncio di Cristo. È un annuncio di bene per gli uomini, annuncio di cui non aver paura: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Gv 6,35). La Chiesa abita la storia annunciando la morte del Signore, proclamando la sua resurrezione nell’attesa della sua venuta. In questo annuncio è la speranza della destinazione ultima della vita. «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno». (Gv 6,39) Nulla va perduto, tutto è raccolto e salvato per l’eternità. Nella certezza di una vita che non muore qualsiasi frammento del vivere ha senso, tutto merita di essere vissuto. La vita può essere difficile ma non insensata, tutto ciò che è consegnato a Cristo è salvato, è perdonato e compiuto.
L’amore di Cristo raggiunge normalmente gli uomini grazie alla forma eucaristica dell’esistenza dei discepoli, profondamente segnata dalla passione missionaria. La nostra vocazione è di essere testimoni dell’amore che annunciamo. La testimonianza della nostra vita è il mezzo con cui l’amore di Dio raggiunge normalmente l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere questa novità in modo libero, grato e lieto.
La nostra passione è che Cristo venga riconosciuto grazie alla forma della nostra vita, per lo sguardo e l’affetto con cui ci presentiamo agli altri. Lo stupore per il dono dell’eucarestia ci rende testimoni dell’amore di Cristo: non viviamo più per noi stessi ma perché egli sia conosciuto e diventi ragione di vita per tutti. Testimone è un uomo posseduto dall’amore di Cristo e che vive per lui. «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,14-17). La creatura nuova guarda gli altri in maniera non umana ma con lo sguardo di Cristo. Preghiamo tanto perché la nostra Chiesa splenda dentro la comunità degli uomini per questa novità di vita.
La Chiesa è bella quando cammina così, quando annuncia e dona la misericordia di Dio. «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,13-15). Non possiamo tradire questo mandato al servizio senza smarrire noi stessi e il senso della nostra missione. Siamo chiamati ad essere la comunità della misericordia. La carità incontra gli uomini nel loro bisogno concreto e desidera che possano fare esperienza della misericordia definitiva, quella di Dio in Cristo, che suscita l’amore e apre l’animo all’altro. L’amore per l’uomo concreto non può, inoltre, non avere conseguenze sociali e politiche. Serve un amore sociale che tenda alla costruzione di un mondo nuovo, di una civiltà nella quale il povero non è solo assistito ma pienamente integrato. I cristiani sono chiamati a lavorare, suscitando la collaborazione degli uomini disponibili, per costruire una società più degna dell’uomo, più solidale e comunitaria.
La passione dell’annuncio di Cristo e la pratica della carità richiamano inevitabilmente alla natura della Chiesa come sacramento di unità. Non si tratta dell’unità esteriore e umana, ma dell’unità del Corpo di Cristo che risplende soprattutto nella sacra liturgia e in particolare nell’Eucarestia. Dobbiamo riconoscerlo con dolore: quante divisioni ci sono anche tra noi, quante invidie e rancori. Proprio in questa epoca segnata dalla guerra siamo chiamati come non mai a ritrovare le ragioni della nostra unità, che suppone la nostra personale conversione: «Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2, 3-5). La nostra concordia ha come presupposto la conversione con cui assumiamo i sentimenti di Gesù Cristo.
Se Cristo «ha abbattuto il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia» (cf. Ef 2, 14); se «ha eliminato in se stesso l’inimicizia» per «riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo per mezzo della croce» (cf. Ef 2,16), come può ancora esistere l’inimicizia nel mondo e perfino dentro la Chiesa? I cristiani sono chiamati ad essere nella città seme e fermento di unità, per apprezzare la ricchezza e la bellezza della vita comune e dell’impegno solidale.
Abbiamo portato la presenza eucaristica di Cristo per le vie della nostra città. Preghiamo con tutto il cuore di poter risplendere in essa per la testimonianza bella della nostra vita di carità e unità.