La fraternità presbiterale nella Chiesa comunione
(Al Clero di Cagliari, 17 marzo 2022)
Articolo la mia riflessione sulla “fraternità presbiterale nella Chiesa comunione” in due parti: nella prima presento la Chiesa comunione, come l’ha proposta la Costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II; nella seconda rifletto sulla fraternità presbiterale, come particolare segno e strumento della comunione di tutto il popolo di Dio.
I. La Chiesa comunione
Nella Costituzione Lumen Gentium il Concilio Vaticano II si è posto tre domande sull’identità e la missione della Chiesa: da dove viene la Chiesa? che cos’è la Chiesa? dove va la Chiesa? Rispondendo a questi interrogativi alla luce del “rinnovamento ecclesiologico”, che aveva preceduto e preparato il Concilio, i Padri del Vaticano II hanno superato alcuni limiti comuni all’ecclesiologia dei manuali scolastici preconciliari: il cosiddetto “cristomonismo”, che sottolineava i soli aspetti visibili ed “incarnazionistici” della Chiesa, superato mediante l’approfondimento dell’origine e della forma trinitaria della Chiesa (“de Trinitate Ecclesia”: cf. il capitolo I della Costituzione conciliare); la “gerarcologia”, ovvero l’assolutizzazione della componente gerarchico-clericale della comunità, ripensata totalmente attraverso le idee di Chiesa “comunione” e di “popolo di Dio”, al cui interno si pone il ministero ordinato quale ministero dell’unità (“communio sanctorum”: cf. i capitoli dal II al VI); l’“ecclesiocentrismo”, la tendenza cioè a esasperare l’esclusivismo della mediazione ecclesiale, superato mediante la riscoperta dell’indole escatologica della Chiesa e la conseguente necessità dell’incessante riforma e del costante rinnovamento della comunità in cammino, vista come segno e profezia per tutta la famiglia umana (“Ecclesia viatorum”: cf. il capitolo VII sull’indole escatologica della Chiesa peregrinante). Questo triplice superamento illumina le ricchezze dell’ecclesiologia del Vaticano II e il suo significato per il cammino “sinodale” che come Chiesa stiamo vivendo.
1. Da dove viene la Chiesa? “De Trinitate Ecclesia”: la memoria dell’origine
La convinzione dei Padri conciliari – eco dell’unanime tradizione cristiana – è che l’amore di Dio precede l’amore dell’uomo: la Chiesa non è frutto di “carne e di sangue”, non è un fiore spuntato dalla terra, ma è dono dall’alto, frutto dell’iniziativa divina. Pensata da sempre nel disegno salvifico del Padre, essa è stata preparata nella storia dell’alleanza con Israele, affinché, compiutisi i tempi, fosse posta nell’effusione dello Spirito Santo. Come il suo Signore, la Chiesa è “oriens ex alto”: la sua origine non è quaggiù, in una convergenza di interessi umani o nello slancio di qualche cuore generoso, ma “in alto”, presso Dio, da dove è venuto il Figlio nella carne, per vivificare questa carne con la partecipazione alla vita trinitaria. Con la Pasqua di Gesù, Signore e Cristo, lo Spirito è entrato in modo pieno e definitivo nella vicenda di questo mondo: Dio ha avuto “tempo per l’uomo”(Karl Barth), e i giorni dell’uomo sono diventati, a partire dall’alba della risurrezione, il tempo penultimo, il “frattempo”, che sta fra la prima venuta del Figlio dell’uomo e il suo ritorno nella gloria, tempo dello Spirito, che instancabilmente opera nella vicenda umana. Alla “kènosi” del Verbo nelle tenebre della carne, è seguita, secondo una densa immagine dei Padri d’Oriente, la “kènosi” dello Spirito nelle tenebre della Sposa: dalla missione del Figlio e dello Spirito è nata la Chiesa! Tre conseguenze possono trarsi da questo richiamo dell’origine “ex alto” per l’idea che possiamo farci della comunione ecclesiale.
In primo luogo, la Chiesa è mistero: opera di Dio e non dell’uomo, nella sua natura più profonda essa è inaccessibile a uno sguardo puramente umano. Anche se è una presenza fra le presenze della storia, essa è il luogo di un’altra Presenza, la vivente memoria di Colui, che, entrato nella storia, non si lascia ridurre ad essa. La Chiesa viene da altrove: chi vuole misurarla e definirla con le analogie di questa terra, chi non vuol vedervi altro che una forza fra le forze della vicenda umana, non ne conoscerà mai il cuore. La Chiesa è la tenda di Dio fra gli uomini, frammento di carne e di tempo in cui lo Spirito dell’Eterno ha preso dimora! Ed è proprio questa convinzione che impegna i credenti a discernere nella complessità della storia i segni della gloria divina, i doni e le chiamate del Dio vivente nell’oggi del suo popolo: l’ascolto credente della Parola di rivelazione, il discernimento spirituale e pastorale dei segni del tempo sono richiesti ai discepoli del Signore, e in primo luogo ai Pastori, per riconoscere e accogliere il mistero che è la Chiesa. Si tratta di interpretare le voci del tempo alla luce della Parola di Dio e di individuare le vie lungo le quali impegnarsi nella sequela di Colui che è la luce della vita. Ci chiediamo allora: siamo una Chiesa in ascolto dei segni dei tempi, impegnata nel discernimento di quanto il Signore ci chiede oggi, con la nostra gente e al suo servizio?
In secondo luogo, il richiamo dell’origine trinitaria ci fa capire che la Chiesa è dono: essa non si inventa o si produce, si riceve. Non è il frutto della fatica dell’uomo, ma l’offerta gratuita di una grazia, che non è né meritata né prevedibile. La Chiesa nasce dall’accoglienza e dal rendimento di grazie: ne risulta l’esigenza di uno stile di vita contemplativo ed eucaristico. Lì dove Dio è adorato nell’attesa perseverante, lì dove si celebra il rendimento di grazie nella memoria potente della Pasqua del Signore, che riattualizza la presenza del Crocifisso Risorto fra i suoi, lì irrompe lo Spirito e suscita la famiglia dei figli di Dio. Non è, dunque, la ricchezza dei mezzi umani a edificare la Chiesa, anzi non è nonostante, ma proprio attraverso la mancanza dei mezzi umani che la Chiesa si edifica! Ci chiediamo allora: siamo una Chiesa che dà il giusto primato alla dimensione contemplativa ed eucaristica della vita?
In terzo luogo, il richiamo dell’origine fa ripensare la Chiesa nella storia: come il Verbo, facendosi carne, è entrato fino in fondo nell’esperienza umana e nella morte, così la Chiesa dovrà farsi presente fino in fondo alle diverse situazioni, per contagiare in esse la forza e la pace del Redentore dell’uomo. L’indole contemplativa dell’essere e dell’agire ecclesiale non può significare fuga dal mondo o paura di impegnarsi in esso: se il Dio della Chiesa si è fatto totalmente dentro alla vicenda umana, la Chiesa di Dio non potrà restare semplice spettatrice della storia. La gloria del Signore si celebra lì dove è promossa la vita dell’uomo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente» (Ireneo). Non c’è situazione umana, specialmente di dolore e di miseria, rispetto alla quale la Chiesa possa sentirsi estranea: il suo compito è di rendersi presente in una solidarietà, che non è né forzatura né supplenza. La Chiesa dell’amore sarà vicina ai più deboli, debole e povera essa stessa, fiduciosa nell’unica forza che le è data veramente, quella del suo Signore crocifisso e risorto. Una Chiesa in cammino con gli uomini, capace di portarne a Dio le lacrime e la protesta, ed insieme capace di annunciare loro l’orizzonte del Regno che viene, è chiamata spesso ad essere contestazione e sovversione della miopia dei calcoli e delle presunzioni di questo mondo. Siamo la Chiesa della carità, impegnata accanto ai più piccoli e deboli, credibile nei gesti dell’amore e della solidarietà vissuta?
2. Che cos’è la Chiesa? “Communio sanctorum”: la coscienza del “frattempo”
La Chiesa nascente dall’alto riceve lo Spirito per donarlo agli uomini: è la comunione di vita in Cristo Signore, tesa a raggiungere tutto l’uomo in ogni uomo nella forza del Consolatore. La Chiesa è comunione in un triplice senso: partecipando all’unico Spirito (“communio Sancti”) attraverso la celebrazione dei sacramenti (i “sancta”: “communio sacramentorum”), i battezzati sono arricchiti dalla varietà dei suoi doni, orientati all’utilità comune (comunione dei santi). Questi doni lo Spirito li distribuisce a ciascuno come vuole. Essi vengono detti “carismi”, doni gratuiti, cioè, frutto della libertà e della fantasia dello Spirito, da Lui elargiti con sovrabbondante ricchezzae rivolti alla crescita dell’intero Corpo di Cristo: «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12,7). In forza del battesimo, ogni cristiano è chiamato a riconoscere e accogliere i doni che Dio gli fa in vista dell’utilità comune.
Di qui conseguono un triplice no e un triplice sì, da pronunciare con l’eloquenza della vita: nessun battezzato ha diritto al disimpegno, perché ognuno è per la sua parte dotato di carismi da vivere nel servizio e nella comunione; ognuno è chiamato alla corresponsabilità in vista della crescita propria e di tutti nella vita dello Spirito e nell’impegno di costruzione della città degli uomini. Nessuno ha diritto alla divisione, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1 Cor 12,4-7 e Lumen Gentium 4 e 12); ognuno è chiamato al dialogo e alla condivisione in vista di una comunione sempre più viva e profonda, rispettosa dell’identità e della missione di ciascuno. Nessuno, infine, ha diritto alla nostalgia del passato, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante, novità di Dio, Signore del tempo futuro. Da qui consegue l’urgenza di uno stile di vita ecclesiale aperta allo Spirito e alle sue sorprese: sempre impegnata nella vittoria sulla tragica resistenza del peccato personale e sociale, “semper reformanda et purificanda”, la Chiesa deve essere docile nel discernimento dei doni del Signore, specialmente in coloro che hanno ricevuto il carisma proprio del discernimento o del coordinamento dei carismi: i ministri ordinati. «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, ritenete ciò che è buono» (1 Tess 5, 19-20). Quest’apertura al nuovo di Dio deve essere accompagnata da un profondo impegno di partecipazione attiva di ciascuno alla comunione e alla missione di tutti: la fedeltà allo Spirito esige la coraggiosa e paziente crescita in comunione con gli altri.
La Chiesa, che riceve lo Spirito, è a sua volta chiamata a donarlo: luogo privilegiato dell’irruzione del dono di Dio nel tempo, essa è anche il segno e lo strumento privilegiato dell’opera del Paraclito nella storia. In questo senso si può affermare che la Chiesa è il sacramento di Cristo, come Cristo è il sacramento di Dio. Questa totale sacramentalità ecclesiale si esprime attraverso l’annuncio della Parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti e l’esercizio della carità, ripresentazione del mistero pasquale del Signore Gesù nella vita degli uomini. Parola e Sacramento sono presenti e convergenti al livello più alto nella celebrazione dell’eucaristia, memoriale della Pasqua del Signore, attualizzazione di essa nella diversità dei tempi e dei luoghi, “sacramentum unitatis” perché dall’unico pane consacrato nasce l’unico Corpo di Cristo, che è la Chiesa, nella forza dello Spirito. Questa Chiesa eucaristica è anzitutto la Chiesa locale, assemblea celebrante in uno spazio e in un tempo definiti: essa è Chiesa in pienezza, “cattolica” nel senso etimologico (“kath’olou” = secondo il tutto), perché è una e santa nell’unico Corpo del Cristo eucaristico e nell’unico Spirito, apostolica nella fedeltà al mandato da Gesù confidato ai suoi: «Fate questo in memoria di me».
Lo stesso Cristo e lo stesso Spirito fondano poi la comunione di ciascuna Chiesa locale con tutte le altre e, dunque, la comunione universale delle Chiese, generate dalla stessa Parola, dallo stesso Pane, dall’unico Spirito del Signore Gesù, e raccolte in unità con e sotto il ministero del Vescovo della Chiesa di Roma che “presiede nell’amore” (secondo l’espressione di Sant’Ignazio di Antiochia). L’eucaristia, dunque, fa la Chiesa, e inseparabilmente la Chiesa fa l’eucaristia, perché la Parola non è proclamata, se non c’è chi l’annunci, e il memoriale della Pasqua non è celebrato, se non c’è chi lo faccia in obbedienza al mandato del Signore. Parola e Sacramento suppongono cioè la ministerialità della Chiesa, tutta impegnata nel triplice compito profetico, sacerdotale e regale. L’esercizio di questa ministerialità, fondata nei doni che lo Spirito elargisce a ciascuno, si attua nei diversi ministeri: fra di essi, il ministero che promuove e serve l’unità di tutti gli altri è il ministero ordinato, conferito col sacramento dell’Ordine (cf. il capitolo III della Lumen Gentium: “La costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’Episcopato”).
In forza del carisma ricevuto con l’ordinazione, i ministri ordinati annunciano la Parola di Dio, celebrano “in persona Christi Capitis” il sacrificio, discernono e coordinano i carismi, esprimendo e servendo in tal modo l’unità del Corpo, che è la Chiesa. Proprio così, il ministero ordinato non è sintesi di ministeri, ma è il ministero della sintesi. Il carisma che gli è proprio è quello di discernere e coordinare i doni e i servizi ecclesiali, mediante l’azione profetica, sacerdotale e pastorale propria dal vescovo per tutta la Chiesa locale, dal presbitero per il campo di azione che il vescovo gli affida. In questa luce, il vescovo si offre come il segno e il servo dell’unità della Chiesa locale, realizzata dallo Spirito nell’eucaristia. Il vescovo di Roma, a sua volta, è nella comunione eucaristica delle Chiese il segno e il servo dell’unità di tutti i fratelli (“servus servorum Dei”), colui che nell’assemblea eucaristica delle Chiese annuncia la Parola del Signore, offre il sacrificio e si offre in sacrificio per il bene di tutte le Chiese, agendo come criterio ultimo della loro comunione.
I presbiteri e i diaconi sono chiamati a servire l’unità dei fratelli nel campo di azione loro affidato dal vescovo: essi esercitano, pertanto, un ministero prezioso, ponendosi al servizio dell’unità della Chiesa mediante il discernimento e il coordinamento dei carismi di tutti i battezzati al servizio dell’utilità comune. Questa concezione supera la tendenza del passato, che, evidenziando esclusivamente il binomio gerarchia-laicato e definendo in modo puramente negativo il laico (= non chierico), finiva col non cogliere la ricchezza carismatica e ministeriale della Chiesa, ripiegandosi in una prospettiva clericalizzante e parziale. Col Concilio Vaticano II si attua la riscoperta dell’“ecclesiologia totale”: se tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono poterlo donare, ciascuno secondo il dono ricevuto. Attraverso la ricchezza e la varietà dei carismi e dei ministeri, riconosciuti dalla Chiesa attraverso il ministero dell’unità, lo Spirito agisce nell’intero popolo di Dio, costantemente rinnovandolo e facendolo crescere nella comunione e nel servizio perché il mondo creda.
3. Dove va la Chiesa? “Ecclesia viatorum”: la profezia della Patria
La comunione ecclesiale, infine, sorgendo dall’alto, dal Padre, per Cristo, nello Spirito, costituita a immagine della comunione trinitaria, non ha come fine sé stessa: essa tende verso l’origine da cui è venuta, è pellegrina verso la “patria”, nello Spirito per Cristo va verso il Padre (cf. il capitolo VII della Lumen Gentium: “L’indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la Chiesa celeste”). Nata dalla memoria viva degli eventi salvifici, la Chiesa è spinta da essi sempre nuovamente ad aprirsi al futuro promesso: il dono “già” ricevuto è anticipo di un dono più grande, “non ancora” compiuto. È dono che non sazia l’attesa, ma che la sovverte e la cambia, rendendola più viva e struggente: è segno della “patria” intravista, ma non posseduta, rifiuto di ogni idolatria del presente per aprirsi al veniente e al nuovo. Tre conseguenze ne derivano per l’esistenza della Chiesa.
In primo luogo, il richiamo della fine insegna alla Chiesa a relativizzarsi: essa scopre di non essere un assoluto, ma uno strumento, non un fine, ma un mezzo, non “domina”, ma povera e serva, pellegrina verso la patria promessa. Nessuna acquisizione deve temperare in lei l’ardore dell’attesa: ogni “estasi dell’adempimento” va considerata evasione e tradimento. Ogni enfasi sui mezzi umani la allontana dall’incondizionata fiducia nell’opera del Suo Signore. La Chiesa, in questa luce, è “semper reformanda”, chiamata a continua purificazione e incessante rinnovamento, inappagata e inappagabile da qualsiasi conquista umana. Ella sa di non “possedere” la verità, ma di esserne come “posseduta”: e nello stupore del mistero divino che la possiede, intuisce di doversi lasciare sempre più possedere dal suo Sposo.
In secondo luogo, il richiamo della fine insegna alla Chiesa a relativizzare le grandezze di questo mondo: tutto è per lei sottoposto al giudizio della Croce e della Resurrezione del Signore. In nome della sua meta più grande, essa dovrà essere critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo. Presente ad ogni situazione umana, solidale con il povero e con l’oppresso, non le sarà lecito identificare la sua speranza con alcuna delle speranze “penultime”. Questa vigilanza, tuttavia, non potrà mai significare disimpegno o critica a buon mercato: si tratta per la Chiesa e per ogni battezzato di assumere le speranze umane e di verificarle al vaglio della Resurrezione, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. Proprio così, lo stile della vita ecclesiale è illuminato dalla “riserva escatologica” (Johannes Baptist Metz), dalla continua verifica, cioè, dell’orizzonte penultimo sull’ultimo, misura di ogni scelta sul disegno in cui viene a compiersi la volontà dell’Eterno.
Infine, il richiamo della patria promessa riempie la Chiesa di gioia: essa esulta già nella speranza, che il dono divino ha acceso in lei. Essa sa di essere l’anticipazione militante di quanto è stato promesso nella Resurrezione del Crocifisso. La sua pace e la sua forza si fondano sulla certezza che lo Spirito del Signore è all’opera nella vicenda umana, perché Dio ha voluto aver tempo per l’uomo e costruire con lui la sua casa! La Chiesa sa, come dice Agostino, che «il suo pellegrinaggio avanza fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio»: «Inter persecutiones mundi et consolationes Dei peregrinando procurrit Ecclesia» (De civitate Dei, XVIII, 51, 2).
II. La fraternità presbiterale
Nella Chiesa comunione, che viene dalla Trinità e ad essa tende, attuando in sé stessa il mutuo scambio dei carismi effusi dallo Spirito e dei ministeri in cui essi si esprimono (“pericoresiecclesiologica”, secondo la densa formula proposta da Joseph Ratzinger), ha un ruolo specifico il ministero di unità proprio dei presbiteri, al servizio del discernimento e del coordinamento di tutti i carismi in vista dell’utilità comune. In forza di questa vocazione che li caratterizza e della grazia loro conferita col sacramento dell’ordine, i presbiteri sono chiamati a essere segno e strumento dell’unità di tutto il popolo di Dio anzitutto attraverso i legami di fraternità vissuti fra di loro. Questa fraternità si nutre delle quattro vicinanze proprie della vita del sacerdote di cui ha parlato Papa Francesco il 17 febbraio 2022 nel suo Discorso al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, promosso dalla Congregazione per i Vescovi: la vicinanza a Dio, la vicinanza al vescovo, la vicinanza fra i sacerdoti e la vicinanza al popolo fedele di Dio. Potremmo ricondurre queste vicinanze al primato della dimensione contemplativa della vita, alla condivisione fraterna piena ed obbediente ai Pastori, e al servizio del popolo di Dio in vista della sua crescita nella fede e della realizzazione della sua missione nella storia. Nelle riflessioni che seguono articolo secondo queste tre tappe la presentazione del significato e dell’incisività della fraternità presbiterale nella comunione di tutta la Chiesa.
1. La dimensione contemplativa della vita, fondamento della comunione
Chiamati secondo un disegno di assoluta gratuità dal Signore della vita e della storia, i presbiteri riconoscono la loro prima e fondamentale vocazione nel vivere la vicinanza a Dio, rendendo grazie a Lui in ogni cosa. Ringraziare chi ci ama è bello, riempie il cuore di gioia: è voce dell’amore, che non può non corrispondere a Colui da cui si riconosce amato con assoluta gratuità. Se chiunque ha conosciuto Dio sente il bisogno di ringraziarlo, in particolare il presbitero sa di doverlo fare celebrando la gloria di un amore così grande, quale è quello da cui si sente avvolto, in una continua prossimità all’Eterno. La gioia più profonda del sacerdote sarà quella di essere la consolazione dell’Amato: perciò, tutto deve divenire in lui lode, festa, canto di gratitudine e di pace. Si potrebbe dire che con il discernimento stesso della vocazione al ministero ordinato il chiamato si riconosce fatto per esistere accanto al Signore, sì da trarre da Lui la luce e la forza necessarie a rispondere all’amore con l’amore, sia pure se in una misura comunque sproporzionata rispetto alla fonte dell’amore da cui gli viene il dono.
Conseguenza di questo discernimento originario, da rinnovare ogni giorno nella fedeltà, è l’esperienza della gioia che ogni presbitero può sperimentare: uomo di preghiera nel rendimento di grazie per i doni ricevuti, il sacerdote è chiamato a irradiare la gioia di sapersi amato dal Signore che lo ha inviato e a farlo con l’eloquenza dei gesti, delle parole e della vita intera. Di qui nasce l’esigenza di condividere questa risposta al dono in una comunità, che lodi fedelmente il Signore e si faccia segno e voce di un popolo in festa. Consapevole che essere chiamati a questa esperienza è grazia dell’Altissimo, gratuita e senza pentimento, chi vi è chiamato è invitato ad unirsi non solo al coro degli angeli e dei santi, che adora senza fine la Trinità divina, ma anche e in particolare a chi è stato chiamato alla stessa missione, affinché la sua esistenza divenga, unita a quella dei fratelli e compagni nel ministero, un’anticipazione visibile della festa che non avrà fine.
Naturalmente, tutto questo si compie nella storia ed è perciò sempre di nuovo esposto alla possibilità della prova. Rispondere alla chiamata che lo fa segno e servo dell’unità voluta dal Signore per il Suo popolo può essere a volte tutt’altro che facile per il presbitero. Ci ricorda questa possibile difficoltà la voce degli esiliati di Sion raccolta nel Salterio: «Come canteremo il canto del Signore in terra straniera?» (Sal 137,4). Come potrò io – potrà chiedersi il presbitero –, in un contesto di vita spesso così straniero a Te, mio Signore, essere Tua lode vivente? Come potrò essere così totalmente Tuo, da lodarti e ringraziarti in ogni istante della mia vita? La risposta della fede non può che essere questa: Chi lo ha chiamato, celebrerà la Sua gloria in colui che avrà scelto e inviato, cui perciò non resta che accogliere il dono di grazia, perseverando nell’ascolto del Signore e nella preghiera di lode e di intercessione.
Va comunque ricordato ciò che la tradizione spirituale attesta in maniera unanime: lottare con Dio è necessario, come è necessario lasciare che Egli vinca. Allora, più forte di ogni resistenza e di ogni prova, dal silenzio di chi riconosce il suo niente nella fedeltà dell’adorazione, dell’ascolto e della lode, si leverà il canto dell’azione di grazie. Come ci testimonia l’Apostolo Paolo, è nella nostra debolezza che potrà risplendere la forza dell’Altissimo; nelle tenebre, la luce; nel dolore, la gioia; nel peccato, la grazia; nella morte, la vita. «Quando sono debole è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). È infatti il Signore a dire al Suo eletto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12, 9). Ed è allora che il presbitero sentirà il bisogno di unirsi ai suoi fratelli, in particolare a quelli che condividono la sua stessa chiamata, per cantare senza fine il grazie a Colui «che ha mirabilmente trionfato» (Es 15, lss.).
La fraternità presbiterale, perciò, in quanto frutto del puro dono dell’amore di Dio, sarà anzitutto una fraternità di lode, fatta di persone che hanno così fortemente sperimentato la misericordia del Signore, da voler spendere la vita nel rendergli grazie senza fine. Sarà una fraternità di intercessione fedele per la Chiesa locale e per la Chiesa universale, come per i bisogni degli uomini più prossimi compagni di strada, come di tutta la famiglia umana. Sarà una fraternità di festa nel nome di Cristo Redentore, una comunione nel perdono ricevuto e donato, una condivisione della pace, che il mondo non conosce e che Dio solo può donare al nostro cuore inquieto. Nella consapevolezza che dove non c’è gratitudine il dono è perduto, sarà una fraternità di rendimento di grazie costante al Dio vivo, nella gioia e nella fatica fedele di un ininterrotto riconoscimento dei doni ricevuti, anche nel tempo delle lacrime.
La dedizione incondizionata del presbitero al Signore e al Suo Regno si esprime in modo particolare nell’impegno del celibato, assunto in risposta a una specifica grazia dello Spirito per servire con cuore indiviso Dio e gli uomini e anticipare la città futura: vivere la condizione celibataria anzitutto come dono dall’alto, da custodire e di cui apprezzare la straordinaria fecondità nel servizio della comunione, vuol dire approfondirne costantemente il significato e la bellezza nella luce della “sequela Christi” e sull’esempio del Figlio incarnato, come pure riconoscere la gratuità della chiamata ricevuta e la forza dall’alto da invocare e accogliere per realizzarla. Si tratta di un’alleanza sponsale col Signore, che come tale deve compiersi nella novità sempre nuova in cui si attua la vera fedeltà.
Tutto questo sarà tanto più vissuto quanto più il presbitero coltiverà la preghiera nella sua vita personale e nella fraternità con altri, specialmente presbiteri. La meditazione assidua della Parola di Dio, la celebrazione dell’eucaristia, che ognuno vivrà secondo i tempi e i modi legati anche alle esigenze pastorali, la liturgia delle ore, l’adorazione davanti al Santissimo, la preghiera del Rosario, ne costituiranno gli appuntamenti quotidiani. Nella celebrazione si curerà il più possibile la semplicità e la bellezza della liturgia, coltivando quella “sobria ebrietas” in cui si esprime propriamente la festa del cuore che ringrazia e l’autenticità della supplica che invoca: «Cristo sia il nostro cibo, / la fede la nostra bevanda, / lieti beviamo la sobria / ebbrezza dello spirito» (Sant’Ambrogio, Inno Splendor paternae gloriae). Nella preghiera perseverante è bene che tutti i presbiteri aiutino ciascuno a dare sempre al Signore il primo posto nel modo più vero, semplice e sincero.
Esprime tutto questo una preghiera attribuita a Sant’Agostino, l’inquieto cercatore della Verità, che l’ha incontrata e se ne è lasciato afferrare totalmente nella persona del Figlio eterno venuto fra noi, mettendosi poi totalmente al suo servizio: «Signore Gesù, conoscermi, conoscerti, non desiderare null’altro che Te, dimenticarmi e amarti, agire solo per amor tuo. Non avere altri che Te nella mia mente, morire a me stesso per vivere in Te. Qualunque cosa accada, riceverla da Te. Rinunciare a me per seguirti, desiderare di seguirti sempre. Fuggire me stesso, rifugiarmi in Te, per essere difeso da Te. Temermi e temerti, per essere accolto fra i Tuoi eletti. Diffidare di me, confidare solo in Te. Voler obbedire a causa Tua. Non attaccarmi a null’altro che a Te, essere povero per Te. Guardami e Ti amerò: chiamami perché Ti veda e goda di Te eternamente. Amen!».
2. La condivisione dei beni e la vicinanza al vescovo e ai fratelli presbiteri
Il cristiano è chiamato a vivere da pellegrino in questo mondo e al tempo stesso a operare in esso come sale della terra: in questa permanente esperienza di appartenenza e di provvisorietà è per lui un’anticipazione della patria del cielo condividere la vita con altri fratelli nella fede. È fortificazione nella debolezza, consiglio nell’incertezza, consolazione nel portare il peso della croce presente: «Come è bello e come è soave che i fratelli stiano insieme!» (Sal 133, 1). È dura prova l’essere privati dei fratelli, come è gioia sentire la loro vicinanza alla propria povertà! Se potessimo esprimere con autenticità il nostro bisogno di prossimità fraterna nella fede, nella speranza e nell’amore, quanti pregiudizi e paure cadrebbero in chi ci incontra: ci vedrebbe per quello che siamo, bisognosi di Dio, mendicanti del cielo, legati alla terra con tenerezza infinita, fratelli da aiutare e da amare! Peraltro, sin dalla nascita ogni essere umano sperimenta il bisogno di un grembo che lo accolga nell’amore: questo grembo è la famiglia, scuola di umanità, di socialità, di fede e di comunione ecclesiale (cf. Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 52 e Esortazione Apostolica Amoris Laetitia, 195. 276).
Sul modello di una vita familiare pienamente vissuta, anche la fraternità presbiterale deve essere luogo ed esperienza sempre nuova di condivisione della vita e dei beni. Questa condivisone, tuttavia, non è affatto facile ed esige anzi un impegno personale serio e perseverante nella reciprocità nei rapporti: se il fratello è aperto a me ed io non lo sono a lui, o se io lo sono a lui ed egli non lo è a me, la fraternità non si regge. Essere fratelli richiede fiducia reciproca, trasparenza per l’altro, affinché nella comunicazione dei cuori passi la luce di Dio, che risplende in ciascuno, e scenda su chi è unito nel nome del Signore il conforto della Sua grazia. Si realizza allora in pienezza la promessa di Gesù: «Dove due o più sono uniti in nome mio, lì io sono presente in mezzo a loro» (Mt 18,20). Veramente, la benedizione di Dio è sui fratelli che si amano! Il comune consiglio nasce dal partecipare alla vita dell’altro in una prossimità discreta e sincera, capace di rispettare le scelte di ciascuno, facendosi ognuno garante e custode della libertà dell’altro.
Vivere la fraternità presbiterale richiede, perciò, di scegliersinella gratuità per servire meglio insieme il Signore e i fratelli. Certamente, chi ha avuto la grazia di crescere in un contesto familiare sereno sarà facilitato in questo cammino: il rapporto fra famiglia e formazione al presbiterato si rivela qui prezioso ai vari livelli della collaborazione possibile, fino a comprendere coppie di sposi nelle “équipes” formative dei seminaristi. Si comprenderà, così, sempre più e meglio come – in analogia all’esperienza di tante famiglie – fraternità presbiterale voglia dire il camminare insieme, condividendo il pane del dolore e della gioia, capace ciascuno della dura e necessaria lotta della solitudine con Dio e della comunione sempre nuova con gli altri. In tal senso, la fraternità è l’altro nome della carità umile, concreta e discreta: non amore terreno, miope e fragile, ma amore divino, grazia invocata e ricevuta, dono che da chiedere e accogliere sempre nuovamente.Ameremo il fratello se lo ameremo in Cristo, con la forza che ci viene dalla Sua Croce e Resurrezione, e con l’unico desiderio che Cristo viva in lui ed egli ami Cristo più della sua vita. Nella fraternità è Cristo che deve crescere, noi, invece, diminuire. Perciò è spesso più necessario parlare con Cristo del fratello, che di Cristo al fratello!
Quando la relazione fraterna sarà toccata da una prova, allora ciascuno pregherà per chiedere luce; poi se ne dovrà parlareinsieme, avendo cura di ascoltare tutti, anche l’ultimo venuto o il più giovane, «poiché spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore» (San Benedetto). Occorre però aver chiaro che le prove fanno parte della vita e sono preziose per la crescita della persona nella fede, nella speranza e nella carità: un candidato al sacerdozio che sogni una vita sacerdotale senza difficoltà o prove, semplicemente si inganna. Certamente, il Signore è fedele e con le prove indicherà la via di uscita, ma questo avverrà se tutti e ciascuno si porranno in ascolto della Sua Parola e dei segni, che Egli avrà donato, certi della promessa del Salvatore: «Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Quello che va sempre tenuto presente è che «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla»(l Cor 10, 13).
La fraternità sarà vissuta con naturalezza, semplicità e gioia, se ognuno avrà fiducia nell’altro. Questa fiducia dovrà esprimersi nel modo più pieno anzitutto verso colui che nella Chiesa locale esercita in pienezza il ministero dell’unità: il vescovo. Ogni presbitero pregherà specialmente per lui e gli aprirà il cuore con umiltà e amore. A sua volta, il vescovo accoglierà con amore e ascolterà con fiducia i suoi sacerdoti, favorendo la loro più ampia collaborazione nel servizio pastorale, nell’apertura reciproca e nella docilità del cuore, animato dal desiderio sincero di servire al meglio la causa di Dio fra gli uomini nostri compagni di strada. La comunione fraterna, peraltro, non sarebbe autentica se non avesse l’apertura ecclesiale di cui la comunione col Vescovo è segno ed alimento. Scriveva il grande ecclesiologo, precursore ottocentesco del Vaticano II, Johannes Adam Möhler: «Il vescovo è – per un luogo determinato – l’immagine visibile dell’unione invisibile di tutti i fedeli; è la personificazione dell’amore reciproco, la manifestazione e il centro vivente dei sentimenti cristiani che tendono all’unità». E aggiungeva: «Il vescovo è … il centro di unione di tutti; perciò chi è unito a lui è in comunione con tutti, e chi da lui è diviso, si è ritirato dalla comunione con gli altri, è separato dalla Chiesa. La Chiesa dunque è nel vescovo, e il vescovo nella Chiesa».
La vicinanza al vescovo e l’esercizio dell’obbedienza dovutagli potrà a volte richiedere ai sacerdoti rinunce e sacrifici rispetto ai propri progetti o desideri: la fraternità presbiterale si realizzerà allora specialmente nell’ininterrotta comunione nella preghiera affinché ognuno faccia la volontà di Dio, sostenuto dall’aiuto scambievole e dalla valorizzazione di tutte le possibilità di condividere la lode del Signore, la vita comune e il servizio. Per esprimere la disponibilità totale della propria vita a Dio e alla Chiesa in vista dell’opera della riconciliazione e della salvezza degli uomini, i presbiteri si sforzeranno di vivere fedelmente l’unione con la Chiesa locale e l’obbedienza al vescovo. Su questa strada la fraternità presbiterale si realizzerà anche nelle possibili difficoltà, accettando le prove come vie offerteci per una più profonda unione col Dio crocifisso e risorto. Appare anche così quanto sia importante il carattere pasquale della fraternità presbiterale: essa si nutrirà di una continua partecipazione alla morte e alla resurrezione del Signore, nella comunione al Suo sacrificio sulla Croce e alla Sua vittoria sul male e sulla morte, grazie al dono del Suo Spirito di vita.
L’amicizia dei presbiteri, coltivata nell’ambito del presbiterio, andrà vissuta il più possibile anche con tutte le altre componenti del popolo di Dio. In particolare, legami sinceri di preghiera e di accompagnamento dovranno unirli alle comunità religiose, specie contemplative, alle varie aggregazioni laicali e a quanti vivono il cammino di discernimento della propria vocazione, come a chi si impegna per promuovere e servire la Chiesa locale, l’unità fra i cristiani divisi e la riconciliazione fra gli uomini nella varietà dei carismi ricevuti. L’accoglienza fraterna verso l’ospite e il povero caratterizzerà l’esistenza di ogni presbitero. Essere pronti ad ascoltare chiunque, accompagnare il discernimento cui ciascuno è chiamato ed aiutare l’integrazione di ognuno nella vita comunitaria è compito precipuo del ministero di unità, in cui si esprime il presbiterato. In tutti questi rapporti i ministri di Dio si sforzeranno di essere segno vivo e fermento dell’unità alla quale tutti siamo chiamati come pellegrini in cammino verso la città di Dio.
È ancora Möhler a ricordarci: «L’unità della Chiesa cristiana consiste in una vita, accesa direttamente e continuamente dallo Spirito divino; vita che si conserva e si propaga per il fattivo amore che stringe fra di loro i fedeli». E questo non è opera di carne e di sangue, ma viene da Dio, a cui va continuamente richiesto l’aiuto come grazia da accogliere e vivere con fede: «La Chiesa viene creata dalla fede: è l’effetto dell’amore vivente nei credenti, per opera dello Spirito Santo». La fraternità presbiterale non fa eccezione: in quanto segno per tutti, essa va continuamente richiesta come dono e vissuta come offerta d’amore al servizio della comunione di tutti, invocata da Dio nella preghiera e accolta e donata ogni giorno nell’esercizio perseverante e gioioso della carità.
3. La vicinanza al popolo di Dio e il servizio alla comunione
Gratuitamente il Signore ci ha riconciliati con sé, gratuitamente siamo chiamati a dare la vita per la riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro: lo spirito di servizio nasce nell’esercizio del ministero unitamente all’accoglienza del dono di Dio e si esprime nella vicinanza al popolo di Dio e nell’accoglienza riservata ad ogni uomo, quale che sia la sua storia e il suo bagaglio di gioie, di dolore e di speranza. Quest’accoglienza richiederà la povertà come stile di vita: solo il povero sa accogliere, perché aspetta tutto; solo il povero dona veramente, perché sa che tutto gli è dato da Dio e che, come gratuitamente riceve, così deve gratuitamente dare. Il povero accetta l’altro per quello che è, amandolo nel concreto di ciò che è, senza voler imporre sé stesso ad alcuno, proponendo con fedeltà e umile amore il dono di Dio a tutti e a ciascuno. La povertà, vissuta in particolare nel distacco dai beni terreni e dallo spirito di possesso, è condizione della credibilità del servizio che il presbitero rende alla comunione: essa è la cattedra ineccepibile, da cui è dato annunciare il Vangelo a tutti.
«Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri», ha affermato Papa Francesco sin dal primissimo inizio del suo ministero di Vescovo di Roma. Nelle opere concrete fatte per amore a chi è nel bisogno, nelle scelte condivise coi poveri in vista della giustizia e della libertà per tutti, si offre il volto della Chiesa chiamata ad essere l’alba dell’universo riconciliato che in Cristo ci è stato promesso. Lo stile di vita dei presbiteri, perciò, non può non ispirarsi alla scelta della povertà evangelica: dall’abitazione al modo di vestire, dal cibo all’uso dei “media” e degli strumenti informatici, dal conto in banca alle modalità del riposo, tutto parli in loro del primato di Dio e della sequela di Gesù povero, umile e casto. Il presbitero cerchi l’essenzialità quale espressione del suo amore a Cristo povero e servo dei poveri e rifugga decisamente da ogni forma di mondanità. Dove è possibile, i presbiteri condividano i beni di cui dispongono, sì che tutto sia loro in comune, in modo che ognuno dia secondo le sue possibilità e prenda secondo i suoi bisogni, in spirito di vera povertà. Il di più appartiene ai poveri e non deve essere mai accumulato egoisticamente.
Si eviti accuratamente da parte di tutti i sacerdoti ogni ostentazione ed ogni accumulo di beni materiali, amando anzi la volontaria privazione per amore di Dio e del prossimo. Perché questo avvenga, è non di meno necessario conoscere la condizione di privazione e di autentica miseria in cui vivono tanti esseri umani. Sono i loro volti, le loro storie che devono sfidarci. Come ha affermato Papa Francesco, «non si può parlare di povertà astratta, quella non esiste! La povertà è la carne di Gesù povero, in quel bambino che ha fame, in quello che è ammalato, in quelle strutture sociali che sono ingiuste…». È chiaro da queste parole che i poveri e la miseria non vanno mai ridotti a una categoria meramente teorica e che le scelte a loro favore non possono limitarsi a compromessi tranquillizzanti. Occorre non solo evitare ogni forma di spreco (a cominciare dallo spreco alimentare, presente alla grande nei Paesi della “affluent society”), ma bisogna anche fare della miseria degli ultimi la cartina da tornasole su cui verificare la verità delle scelte che facciamo. Da questa verifica può venire uno straordinario pungolo al cambiamento degli stili di vita e degli atteggiamenti del cuore nella nostra vita di presbiteri.
È su questa strada che si potrà scoprire sempre più la povertà come valore. È ancora Papa Francesco ad affermare: “Non lasciatevi rubare la speranza dallo spirito del benessere che, alla fine, porta a diventare un niente nella vita! …Ma la speranza, dove la trovo? Nella carne di Gesù sofferente e nella vera povertà”. Se riponi in Cristo la tua fede e la tua speranza e orienti a Lui le tue scelte di vita, allora non potrai inseguire il denaro come valore cui finalizzare le tue scelte. Allora capirai sempre di più che c’è un tesoro ben più grande di un conto in banca, ed è il dono di sé vissuto per gli altri e la condivisione di ciò che hai con chi non ha nulla. Ne consegue uno stile, fatto di carità vissuta, di sobrietà di costumi e di gioia del dare. L’immagine della persona riuscita, identificata con chi si conforma ai modelli della società dei consumi, deve cedere il posto alla verità di chi si mette in gioco per gli altri e non esita a sacrificarsi, pagando di persona. La maschera soddisfatta e suadente della persona di successo impallidisce davanti al coraggio umile di chi impara a conoscere i poveri e si dona per loro, sentendo come offesa a loro ogni ostentazione di ricchezza o di potere. Non si tratta di sembrare poveri, ma di esserlo nelle scelte profonde del cuore per dare il primato al vero tesoro, la carità ricevuta da Dio e vissuta per gli altri.
Si comprende qui l’importanza della povertà scelta per amore, quale si esprime nello stile di vita, nell’attiva solidarietà verso chi è debole e nell’impegno concreto al servizio della giustizia per tutti. Non si tratta di inseguire sogni ideologici che lascino le cose come stanno o peggio le appesantiscano con la violenza tipica di chi vuol cambiare il mondo per conformarlo alla propria testa. «Non si può parlare di povertà – dice ancora Papa Francesco – senza avere l’esperienza con i poveri». Voler fare qualcosa di giusto, vero e bello per gli altri, specie i più deboli e bisognosi, e farlo effettivamente attraverso le scelte piccole e grandi, cui ci chiama ogni giorno la vita: a questo è chiamato il sacerdote nella quotidianità della sua esistenza. «San Pietro non aveva certo un conto in banca», afferma ancora Papa Francesco. E aggiunge che chi testimonia il Vangelo deve poter dire: «Non ho ricchezze, la mia ricchezza è soltanto il dono che ho ricevuto, Dio». È questa povertà che «ci salva dal diventare solo organizzatori o imprenditori». Anche le opere della Chiesa vanno vissute «con cuore di povertà… perché la Chiesa nasce da questa gratuità ricevuta e annunziata». Una Chiesa che diventi “ricca” o che perda la “gratuità” come stile di vita, è una Chiesa che “invecchia” e che, alla fine, muore.
Della disponibilità a servire, infine, fa parte anche l’esigenza della formazione permanente: ogni presbitero si formi adeguatamente per il servizio cui è chiamato e non cessi di aggiornare la sua preparazione attraverso tutti i mezzi e le occasioni possibili. Lo studio della teologia va amato quale via di migliore conoscenza della Sacra Scrittura e della rivelazione compiutasi in Cristo e come doverosa premessa all’annuncio serio, credibile e appassionato di Lui. Ciascuno si sforzi di entrare in profondità nel mistero rivelato e di leggere con cura sempre più attenta i “segni del tempo”, cui corrispondere in risposta al Signore che in essi ci raggiunge. Su questa via si potrà sempre meglio discernere il dono ricevuto e metterlo a servizio degli altri, con disponibilità e apertura verso gli altri doni e servizi, elargiti dallo Spirito. In questa prospettiva, vi sia fra i presbiteri un continuo scambio di esperienze, relative al proprio lavoro pastorale e alle competenze di ciascuno, e un costante aggiornamento, che li aiuti ad essere fedeli al Signore, stando al passo dei tempi.
Preghiamo, allora, perché il Signore aiuti ciascuno di noi a vivere questo stile di vita nella ricchezza e varietà dei suoi aspetti. Lo facciamo con parole di don Tonino Bello, il buon pastore povero e amico dei poveri, che alla fine di una omelia tenuta specialmente per i suoi preti ebbe a dire: «Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli del cenacolo, gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente, con l’olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa’ risplendere di gioia i loro corpi. Rivesti loro di abiti nuziali e cingili con cinture di luce perché, per essi e per tutti, lo Sposo non tarderà».