Ospedale Marino di Cagliari, 18 dicembre 2020
Ci disponiamo in questi giorni ad accogliere con gioia la notizia di questo “Emmanuele”, “Dio con noi”. L’uomo davvero religioso ha sempre avvertito una grande distanza tra sé e Dio, noi siamo deboli, mortali, vulnerabili, capaci di subire ferite (questo significa “vulnerabili”) e fragili. Etimologicamente: gente che si può rompere. Invece Dio è la perfezione, è l’immortalità, è l’infinito. C’è una grande distanza, ma noi possiamo fare esperienza di Dio perché lui ha colmato questa distanza. È venuto a noi il “Dio-con-noi” e possiamo aggiungere “in ogni circostanza di vita”, perché se è con noi, lo è sempre. La sua incarnazione, la sua passione, la sua risurrezione, la sua ascensione al cielo significano una cosa molto semplice: è sempre con noi, nonostante certe vicende di vita sembrano portare distanti da Lui, come la sofferenza, la morte e, a volte la disperazione, la tentazione dell’isolamento. E proprio la sofferenza, a volte, ci isola in noi stessi. Ma se qualcuno penetra dentro questo isolamento anche la sofferenza si può condividere. Questo, etimologicamente, è il senso della parola “consolazione”. Consolazione significa che non sono più solo, che c’è qualcuno a cui affidare anche il peso della mia solitudine, il peso della mia malattia. Il Natale è una festa che parla di questa consolazione per gli uomini che ne hanno bisogno.
Non siamo soli, non siamo abbandonati di fronte al nostro male, ma c’è qualcuno che si prende cura di noi con la sua presenza amorevole. È vero che siamo vulnerabili, ma Dio si è fatto vulnerabile per strapparci dalla condizione di morte. Siamo amati: questa in fondo è la cosa più straordinaria, il volto del Bambino Gesù ci dice che il volto di ogni uomo è amabile, è “da adorare”, perché i Re Magi adorarono il Bambino, ma non a caso noi usiamo questa parola per dire l’amore: “Ti adoro”. È interessante, si può usare solo per Dio e di fatto lo usiamo anche per gli uomini amati, perché nell’amore cristiano le due cose sono legate in modo indissolubile. Nel cristianesimo l’uomo ha sempre cercato una possibilità di cura, così come Gesù andava per la Palestina guarendo. Lui guariva toccando, cioè condividendo e dialogando, quindi instaurando una relazione. Guariva percependo anche la malattia e il malessere psicologico e spirituale degli uomini. Così, poi, sono nati gli “ospedali”, che sono luoghi di “ospitalità”, perché un uomo malato ha bisogno di un luogo in cui possa essere riconosciuto nel suo bisogno e nella sua dignità. E accanto a chi sta male ecco i medici e gli infermieri, il cui nome deriva da “infermo”, colui che si fa carico dell’infermo e così il suo lavoro diventa la sorte del malato.
Il cristianesimo ha davvero dato una grande possibilità di svolta a questa condizione di sofferenza. Noi tutti in questa circostanza del Covid guardiamo a questi luoghi di cura come a un luogo di vera umanità. Benedetto XVI diceva: «La misura dell’umanità si calcola in relazione alla capacità di stare di fronte alla sofferenza». È qui che si misura la nostra umanità, il grado di civiltà del nostro popolo: dalla capacità che abbiamo di accogliere, di curare, di piegarci sugli uomini, di infondere loro coraggio, speranza, di guarire, se possibile, le ferite del corpo, e al tempo stesso preoccuparsi della dignità, della sorte degli uomini. Oggi il nostro grazie e la nostra preghiera è per tutti coloro che stanno qui: medici, infermieri, farmacisti, operatori sanitari, vigili del fuoco, dirigenti, chiunque qui collabora a questa grande impresa che è l’amore per l’uomo che ha bisogno! Preghiamo per gli infermi, perché possano essere sollevati dalla loro condizione e possano ritrovare speranza nella certezza di un amore più grande della sofferenza e della debolezza.
Preghiamo, speriamo, e disponiamoci ad accogliere il Signore che viene.